Ho appeso sopra la mia scrivania il ritaglio di una prima pagina de “l’Unità”. Porta la data del 4 aprile 1962. Mostra questo titolo a quattro colonne: “Sciopero all’Om-Fiat al grido di libertà”. È una mia corrispondenza da Brescia di 52 anni fa. Un “reperto” regalatomi per una festa di compleanno. Una testimonianza che mi ricorda, in questi giorni di aspre discussioni, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori affondi le sue radici nelle lotte operaie degli anni 60. Saranno poi due socialisti, Giacomo Brodolini e soprattutto Gino Giugni, a stendere il testo legislativo. Tra le norme c’è quella che considera nullo il licenziamento “intimato senza giusta causa”. Quello sciopero alla Om-Fiat di Brescia nel 1962 riguarda proprio una mancata “giusta causa”. Nel sommario della corrispondenza bresciana si legge infatti: “La lotta originata da un licenziamento per rappresaglia”.

Oggi, 2015, quella norma non c’è più. I “licenziamenti ingiustificati” saranno tutt’al più accompagnati, dice il Jobs Act, da una “tutela risarcitoria” non decisa dal giudice, bensì dal padrone medesimo. Un tuffo nel passato, in quello sciopero del 1962.

Io, in qualche modo, l’ho visto nascere lo Statuto. Anche perché, sempre per rimanere con quella fabbrica, collaboravo alla redazione de “La voce dei lavoratori della Om”, un foglio dove si raccontava di come fosse proibito parlare di politica o raccogliere adesioni al sindacato, mentre si tentava, come nella casa madre di Torino, di organizzare reparti confino per esponenti della Fiom.

Erano gli anni in cui i lavoratori non potevano intervenire sui problemi della sicurezza e rischiavano di essere licenziati “ad nutum”, ovverosia con un cenno della mano, mentre gli operai, impossibilitati a recarsi alla toilette, facevano spesso la pipì in barattoli portati da casa.

Per non dire dei controlli, anche a distanza, per impedire non tanto intralci produttivi, quanto attività di proselitismo sindacale. Non a caso lo Statuto parlerà poi di divieto “d’impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza”.

Una “condizione” esasperante. È l’ex segretario della Cgil, Antonio Pizzinato, all’epoca operaio alla Borletti, a raccontare alcune anticipazioni dello Statuto stesso. Come quella legge, all’inizio degli anni 50, che pone fine al fatto che se una donna rimane incinta è licenziata. Non è più considerato un atto legittimo, così come è illegittimo il licenziamento di una donna che si sposa.

Insomma, prima dello Statuto c’è un altro mondo per i salariati. Tra i primi a parlare di un possibile progetto legislativo è Giuseppe Di Vittorio al congresso di Napoli della Cgil (nel 1952). Con queste parole: “Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo, dal padrone …”. È questo il motivo, proseguiva il leader della Cgil, per cui “sottoponiamo al congresso un progetto di Statuto che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”.

Un appello accompagnato, anni dopo, dalla messa in opera di alcuni diritti. Come quello di assemblea. Ricordo bene quelle fabbriche spalancate dagli operai che portano dentro, quasi a spalle, i propri dirigenti sindacali, i Trentin, i Carniti, i Benvenuto. Una cosa mai vista, un crollo dei muri, una cancellazione di confini considerati invalicabili.

È il lancio di una strategia democratica che sembra poter dilagare nel mondo delle scuole, del femminismo, delle istituzioni locali. Una richiesta grande di partecipazione più tardi assorbita, assopita. Perché inizia un salto all’indietro? Tutto passa, credo, attraverso la rottura dei rapporti unitari, l’indebolimento della forza sindacale.

Una tappa importante appare nella sconfitta della lotta di 35 giorni alla Fiat nel 1980, poi con la vicenda della scala mobile nel 1984, la sequela di accordi separati. La retromarcia è innestata vigorosamente, sul piano politico, dal centrodestra di Silvio Berlusconi.

Così il successore di Brodolini al ministero del Lavoro, Maurizio Sacconi, spiega, nel 2010, ai plaudenti industriali a Parma come una nuova legge servirà a “completare la liberazione dall’oppressione burocratica, da tutto quello che genera conflitto e dall’incompetenza che minaccia l’occupabilità”.

Lo scopo è “battere il nichilismo delle generazioni degli anni 70 che sono entrate nei mestieri dell’educazione, della magistratura e dell’editoria non tanto per occupare, come diceva Gramsci, le casematte del potere, quanto, come si dice a Roma, per infrattarsi, perché è sempre meglio che lavorare”. Parole di disprezzo verso esperienze che hanno fatto grande, forte e unitario il sindacato e più civile il paese.

E ora, sia pure in modi diversi e con accenti diversi, il centrosinistra sembra volersi appropriare di tale lascito. Anche facendo leva sul fatto che il mondo del lavoro si è trasformato in modo impressionante. Lo Statuto dimostra la sua età, avrebbe bisogno di aggiustamenti, ma del tutto diversi.

Oggi i Co.co.co, i lavoratori a progetto, gli stagisti, quelli che pullulano nelle fabbriche con le casacche degli appalti, accanto ai loro compagni “normali”, non sanno che cosa sia lo Statuto. Non a caso la Cgil ha lanciato una proposta per la stesura di un nuovo testo capace, appunto, di farsi carico delle nuove realtà. E verrebbe voglia di osservare che forse una tale iniziativa sarebbe stata opportuna al primo manifestarsi della frammentazione lavorativa.

Fatto sta che oggi, come ha osservato su “Rassegna” Nino Baseotto, segretario confederale Cgil, “il numero delle lavoratrici e dei lavoratori che non sono tutelati da alcun contratto nazionale di lavoro è in aumento”. Sarebbe necessaria un’estensione dei diritti, non una loro riduzione. Una proposta alternativa, capace di parlare a tutto il mondo del lavoro può avere un effetto trainante, convincente. Sfidando chi solo vuol dividere.