Che non sarebbe stata un’ordinaria giornata di mobilitazione, lo si era capito fin dalle prime ore dell’alba, con l’arrivo nella capitale dei treni speciali e delle migliaia di pullman stracolmi di uomini e donne provenienti da tutta Italia per riempire la Piazza della Cgil. Tanti. Tantissimi. Molti più del previsto. A colpo d’occhio, quei coloratissimi cortei improvvisati diretti dai più diversi angoli della città nei luoghi stabiliti per i concentramenti, avevano fatto pensare già di buon mattino a una cifra sicuramente eccedente le 150.000 unità di partecipanti “organizzati” indicati alla vigilia dell’evento.

Sensazioni confermate appieno alla vista dei giganteschi serpentoni umani che, procedenti da piazza della Repubblica e da piazzale dei Partigiani, sarebbero sfilati più tardi pieni di vita, di musica, di creatività, e anche di rabbia, per le vie di Roma, con moltissimi che avrebbero fatto addirittura fatica a trovar posto già alle 11 nella stracolma piazza San Giovanni. Una manifestazione imponente come non la si vedeva da anni. Quasi una competizione a chi riusciva a rendersi più visibile: gli operai dell’edilizia – uno dei settori più colpiti dalla crisi – con i loro tradizionali cappelli di carta calcati sulla testa, i giovani (riuscitissimo il loro flash mob, con la scritta fatta dei corpi di ragazze e ragazzi a comporre il titolo della campagna “X Tutti”) e gli studenti (con i loro slogan e gli striscioni in favore del diritto all’istruzione, rimesso in discussione dalle scelte del governo), i lavoratori delle aziende in crisi, i “nonni per il lavoro”.

Sotto il tiepido sole di un ottobre alle ultime battute, in quella che è stata una splendida giornata di festa all’insegna della protesta, ma soprattutto della proposta (non di sola Leopolda, evidentemente, si nutre la pars costruens di un’Italia sempre più interessata – e nel modo giusto – a cambiare verso), da tutti è arrivato lo stesso messaggio: il mondo del lavoro, i pensionati, le nuove generazioni, gli atipici e le partite Iva – insomma, il paese reale – hanno uno straordinario bisogno di voltare pagina. Non si arrendono alla deriva di un’Italia dove la disuguaglianza è aumentata negli ultimi 20-30 anni molto di più che in altre economie occidentali e dove la linea di confine tra chi è povero e chi non lo è appare sempre più labile.

E non si rassegnano nemmeno all’idea che la riduzione dei diritti e delle tutele possa far bene al paese, perché – non c’è bisogno di un Nobel per l’economia per comprenderlo –, oltre a rappresentare un’insopportabile forma di ingiustizia, non serve a migliorare le condizioni di lavoro, né può costituire una prospettiva per la crescita dell’occupazione. Ma soprattutto una missiva le persone che hanno affollato stamane la storica piazza romana dei raduni sindacali – e con loro, sicuramente, un pezzo importante di Italia stremata da 7 anni di recessione – hanno voluto far pervenire alla classe dirigente del paese: non ne possono più di annunci, promesse e proclami, poi puntualmente smentiti dai fatti, a cominciare dal caso della legge delega sul lavoro (quasi in bianco) accompagnata da affermazioni sulla fine dell’articolo 18 e da improbabili (e irraggiungibili) modelli europei cui ispirarsi.

Che senso ha, si chiedono a questo punto in molti, sostenere di voler creare buona occupazione e poi non intervenire per ridurre le ingiustizie sociali e le storture del mercato del lavoro, insistendo su un modello di paese che compete al ribasso e non scommette sull’innovazione e la ricerca? Al centro della piattaforma alla base della manifestazione nazionale di oggi, la Cgil ha inserito un pacchetto di proposte “semplici, ma efficaci, in grado di restituire – ha scandito dal palco di piazza San Giovanni Susanna Camusso – dignità a chi lavora e ripristinare il principio indispensabile dell’uguaglianza”: un piano straordinario per l’occupazione finanziato da uno spostamento della tassazione sulle grandi ricchezze, la riforma per ammortizzatori sociali universali, l’estensione a tutti dei diritti e delle tutele garantiti dallo Statuto dei lavoratori, un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Nulla di tutto questo è presente in nessuno dei provvedimenti messi a punto dal governo. C’è poco da stupirsene, naturalmente: è noto che il confronto con il mondo del lavoro e con le sue rappresentanze non ha mai rappresentato una priorità per Matteo Renzi, impegnato con pervicacia – praticamente fin dal giorno del suo insediamento a Palazzo Chigi – nella messa in soffitta di ogni forma di dialogo sociale. Ciononostante, il sindacato (la Cgil sicuramente) continua a perseguire con convinzione l’obiettivo di migliorare il testo del Jobs Act.

Certo, non sarà affatto semplice, considerando che – dopo il passaggio in Senato – la legge delega sul lavoro verrà con ogni probabilità blindata anche alla Camera. Lo sanno bene a corso d’Italia. E allora? Come portare l’affondo in direzione di una modifica ritenuta, anche in taluni ambienti accademici e del mondo della ricerca, indispensabile? È stata ancora la segretaria della Cgil, dal palco di Roma, a indicare quella che a molti, anche all’interno della sua organizzazione, appare come la risposta più logica da mettere in campo. “Nessuno, neanche il governo, può cancellare la voce del lavoro. Ci vedremo ancora, in piazza e negli scioperi che faremo. La nostra vertenza è solo l'inizio di un cammino”.