La rivoluzione dell'intelligenza artificiale promette di cambiare in profondità le strategie di competizione delle imprese, l’organizzazione del lavoro e le competenze richieste dal mercato. E ciò solo per limitarsi ad alcuni aspetti economici, senza affrontare riflessioni di natura più ampia.Il dibattito attuale, almeno nel nostro paese, si basa prevalentemente su ipotesi e casi di studio piuttosto che su consolidate evidenze empiriche. Non è semplice quindi dire cosa aspettarci per il futuro, a meno di confidare nelle argomentazioni “pratiche” di chi protesta a San Francisco contro le auto senza conducente, o nei costrutti “teorici” di studiosi del cambiamento tecnologico e delle istituzioni come Daron Acemoglu e Simon Johnson (Power and Progress, 2023). Ciò premesso, proviamo a illustrare alcuni elementi delle nuove tecnologie che riteniamo importanti per le caratteristiche del tessuto imprenditoriale italiano e per le prospettive del nostro mercato del lavoro.

Primo. Investire nelle tecnologie di ultima generazione non è una scelta che agisce in un vuoto, né i suoi effetti sul lavoro sono indipendenti dall’ambiente in cui vengono realizzati. Sappiamo ad esempio che l'intelligenza artificiale (Ai) agisce come una tecnologia di natura “generale” che tende a ridisegnare tutte le dimensioni dell’impresa, dal modello di business, alle politiche del personale, alle strategie competitive. Le soluzioni di Ai mirano ad assimilare i processi cognitivi e a utilizzare le informazioni disponibili per automatizzare e accelerare compiti che in precedenza potevano essere svolti dai lavoratori.

L'adozione delle tecnologie di intelligenza artificiale presuppone in qualche modo l’esistenza di pratiche manageriali e modelli di organizzazione delle risorse umane ben strutturate, ovvero sistemi operativi di gestione di grandi banche dati in grado di elaborare processi di apprendimento automatico e previsionale. In altre parole, la propensione a investire in Ai tende a riflettere - piuttosto che creare ex novo - l'infrastruttura “imprenditoriale”, tecnologica e organizzativa delle aziende e la loro propensione a utilizzare i dati per ottimizzare le loro attività produttive e decisioni manageriali.

Secondo. Il fatto che la Ai sia una tecnologia di natura general purpose che incorpora processi cognitivi complessi la rende diversa rispetto alla precedente ondata di tecnologie anche per quanto riguarda gli effetti sull’occupazione e sui salari. Negli ultimi anni la digitalizzazione e l’automazione si sono accompagnate a una progressiva polarizzazione del mercato del lavoro e un incremento della disuguaglianza. Numerose ricerche mostrano come esse abbiano favorito le professioni “apicali”, caratterizzate da mansioni cognitive e relazionali ovvero da competenze scientifiche, mentre hanno colpito soprattutto le professioni “medie”, connaturate allo svolgimento di compiti tecnici e ripetitivi, rigidamente codificati nei processi di produzione. La robotica, l’Internet delle cose, la realtà aumentata e altri dispositivi che potremmo sintetizzare nel termine Industria 4.0 sembrano poi essere state relativamente neutrali per le professioni “elementari”, quelle dove prevalgono le mansioni fisiche e non ripetitive, e dove non sono richieste qualifiche formali.

Tra le conseguenze principali di questo tipo di cambiamento tecnologico - che gli inglesi chiamano non a caso “task biased” - vi è stato un aumento della disuguaglianza dei salari e delle prospettive occupazionali tra un esiguo numero di professioni manageriali e dirigenziali, da una parte, e un grande numero di professioni impiegatizie, tecniche e specialistiche, dall’altra. In questo contesto, è facile immaginare come l’Ia potrebbe non solo accelerare le attuali dinamiche di polarizzazione e disuguaglianza, ma alterarne in modo sostanziale la natura, proprio in forza della sua specificità. Nella misura in cui le soluzioni Ai mirano a supportare e progressivamente sostituire processi decisionali svolti dagli esseri umani, le professioni maggiormente colpite dal cambiamento potranno essere infatti proprio quelle manageriali e dirigenziali, ovvero le occupazioni beneficiate dalla precedente generazione di tecnologie digitali. Naturalmente ciò non implica per forza di cose un incremento della disoccupazione per i lavoratori più qualificati, con competenze cognitive e relazionali, magari con alle spalle un percorso di istruzione nelle discipline scientifiche. E un conseguente ulteriore aumento della disuguaglianza. La diffusione dei sistemi di Ai potrebbero infatti creare nuove opportunità di reddito e occupazione che, almeno in parte, compensano la perdita di figure professionali che vanno a sostituire.

L’aspetto ancora più importante da considerare è forse un altro. Il fatto che sistemi di apprendimento complesso sostituiscano le decisioni gli esseri umani rischia di produrre un radicale cambiamento nelle norme sociali e culturali implicite che da sempre regolano i rapporti di lavoro, dentro e tra le aziende. Quando ad un algoritmo viene delegata la decisione di optare per una strategia di efficientamento energetico, o di innovazione sui mercati internazionali o, ancora, di ridurre il costo del lavoro attraverso piani di esubero, è evidente che il piano di ragionamento cambia. Ed emerge in modo chiaro l’opportunità di avviare una riflessione profonda sugli strumenti più idonei per accompagnare questo cambiamento epocale.

Terzo. Proprio sulla base delle argomentazioni precedenti possiamo immaginare alcune proposte concrete, limitandole per adesso al perimetro della politica economica e delle relazioni industriali. In questa prospettiva sembra auspicabile, innanzitutto, che la politica industriale assuma un indirizzo strategico e di lungo periodo, tralasciando l’inclinazione verso interventi erogati al margine e in ottica di breve. Per semplificare, servirebbero più progetti pubblici di infrastrutturazione tecnologica e organizzativa - anche a livello locale - e un po' meno incentivi fiscali di tipo non selettivo. Anche perché quest’ultimi non si sono rivelati così efficaci alla prova dei fatti, se non altro dal punto di vista della finanza pubblica. Alcune ricerche Inapp dimostrano così come alcune misure di decontribuzione fiscale che hanno accompagnato il Piano nazionale 4.0 nel periodo 2015-2017 per circa il 60% dei casi sono andati a finanziare investimenti che le azienda avevano già programmato di effettuare. Ne è riprova la persistente bassa incidenza delle imprese italiane ad adottare tecnologie digitali (26%) e ancora più l'esigua quota di esse che adottano una delle tecnologie di base per lo sviluppo dei sistemi Aa, ovvero big data analytics (meno del 3%).

In questa situazione, le politiche pubbliche di infrastrutturazione tecnologica, organizzativa e sociale - a tutti i livelli istituzionali - possono essere di aiuto per favorire la diffusione dell’Ai e dei suoi effetti potenzialmente benefici sulla produttività e sulla liberazione degli spazi di lavoro a parità di occupazione. Lasciare un cambiamento di tale portata a sé stesso oppure provare a governarlo con interventi di natura esclusivamente fiscale, rischia invece di massimizzarne i rischi non solo la tenuta sociale e occupazionale, ma per la competitività stessa del tessuto imprenditoriale.

Un'altra proposta riguarda, appunto, l’assetto delle relazioni industriali. Per tutto ciò che abbiamo detto finora sembra urgente ragionare su una legge sulla rappresentanza sindacale che faccia da ordito generale a un legame più stretto tra Rsu e Rsa. La stretta connessione tra rappresentanze dei lavoratori elette in azienda, le rappresentanze sindacali unitarie e la contrattazione collettiva è un requisito importante per provare governare in modo efficiente e inclusivo le nuove tecnologie. Gli investimenti in Ia intervengono in cosi tante dimensioni della vita aziendale, dell’organizzazione del lavoro e delle strategie di competizione che abbiamo bisogno di un intelligenza collettiva che ne minimizzi i rischi e massimizzi le opportunità sia per quanto riguarda le politiche salariali, quelle occupazionali fino alle opzioni di competizione. Le norme sociali e democratiche nei luoghi di lavoro sono sempre state una leva di sviluppo. Speriamo che il futuro, questo futuro, non faccia eccezione.

Andrea Ricci, economista, è dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Le opinioni espresse in questo articolo sono di natura personale e non riflettono necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.