Il cantiere pensioni, che era stato aperto dal governo Conte, potrebbe riaprire anche se non sono ancora chiari i tempi, visto che l’emergenza sanitaria e il Recovery plan hanno la precedenza assoluta. Il nuovo governo guidato da Mario Draghi dovrà comunque risolvere alcuni dei problemi che il sistema previdenziale si trascina da anni e dare una risposta a chi paventa uno “scalone” nel 2022 una volta messa in soffitta “Quota 100”, che permetteva uscite anticipate con 62 anni d’età e 38 anni di contribuiti versati, un tetto che ha escluso la stragrande maggioranza dei lavoratori e soprattutto delle donne e di tutti coloro che hanno carriere intermittenti e precarie. L’altra grande questione riguarda i giovani che oggi lavorano (e i tanti che non sono occupati). Che pensioni avranno? O meglio avranno mai una pensione?

Dopo Quota 100
Per quanto riguarda Quota 100 tanti esperti (compresa la ex ministra Fornero che ha firmato una delle riforme più draconiane), commentatori e analisti si sono lanciati in proposte e previsioni. Dopo Quota 100, Quota 101, 102 e via numerando. La Cgil è stata chiara sin da subito. No a proroghe o a piccoli ritocchi. Serve una rivisitazione generale di tutto il sistema previdenziale che è oggi tra i più rigidi in quanto a flessibilità di uscita e calcolo della contribuzione versata. Ora, tra l’altro, la quota di contributivo nelle pensioni comincia a essere quella dominante anche quando i lavoratori  hanno ancora una parte di pensione calcolata con il retributivo. Secondo la Cgil (che lo ha spiegato più volte con i dati del suo Osservatorio Previdenza) l’adesione a Quota 100 da parte dei lavoratori è stata molto al di sotto delle previsioni. Come conseguenza si sono risparmiati circa 7 miliardi che ora potrebbero essere utilizzati per altri interventi sul sistema. “La sola proroga di Quota 100 rappresenterebbe un ennesimo intervento spot che non modificherebbe la legge Fornero e non darebbe risposte alle persone che lavorano – argomenta Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil, con delega alle politiche previdenziali - dopo una proroga di uno o due anni ci si ritroverebbe al punto di partenza e comunque nel frattempo per chi non raggiunge i 38 anni di contributi, o i 62 anni di età, non cambierebbe assolutamente nulla". Per Ghiselli, "è necessaria quindi una riforma seria e duratura, che consenta a tutti i lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione dopo i 62 anni o con 41 anni di contributi, e in particolare che affronti il tema di chi fa i lavori manuali o gravosi, riconosca il lavoro di cura e la situazione specifica delle donne e  dia una prospettiva previdenziale ai giovani e a chi fa lavori poveri o discontinui. In sostanza una riforma che guardi al mondo del lavoro di oggi e a quello futuro e non a quello che è stato. Il fatto che tutte le persone che andranno in pensione da ora in poi avranno prevalentemente un calcolo contributivo, rende queste misure non solo eque socialmente ma anche compatibili finanziariamente".

La proposta Geroldi
Il professor Gianni Geroldi è uno dei massimi esperti di sistemi previdenziali. Ha collaborato con vari governi e ora fa parte della Commissione istituita dal Parlamento presso il ministero del Lavoro per distinguere la spesa sociale da quella previdenziale. Secondo Geroldi, per quanto riguarda l’introduzione di elementi di flessibilità nel meccanismo di uscita anticipata (prima dei 67 anni attualmente fissati per la vecchiaia), si potrebbe agire su più leve: la prima riguarda uno dei paletti fissati dalla riforma Fornero, il valore di 2,8 volte l’assegno sociale di pensione maturata (circa 1350 euro mensili), limite necessario per poter lasciare tre anni prima il lavoro per chi è nel sistema contributivo. Sia questo tetto, sia gli anni di contribuzione troppo elevati previsti per le altre misure hanno determinato e determineranno tante iniquità tra lavoratori e penalizzano soprattutto le donne che spesso hanno carriere professionali intermittenti a causa dei lavori di cura dei familiari. Per Geroldi è necessaria una flessibilità maggiore modificando prima di tutto il valore del 2,8. “La legge Fornero è restrittiva per l’accesso alla pensione – spiega Geroldi – e soprattutto non ha messo in conto che il mercato del lavoro sarebbe stato nei fatti molto peggiore delle previsioni restringendo quindi per i lavoratori in difficoltà occupazionale la possibilità di andare in pensione anticipata senza eccessive penalizzazioni”. Uno degli esempi delle contraddizioni che si sono create con la riforma è stato per esempio quello degli esodati, lavoratori che si sono trovati all’improvviso fuori dal lavoro senza più stipendio, ma anche senza pensione. Un’altra possibilità per rendere più flessibili le uscite potrebbe anche essere quella di applicare una correzione attuariale degli anni di contributi versati prima del 1996 (Riforma Dini), utilizzando il rapporto tra i coefficienti di trasformazione dell’età effettiva di pensione e quello dell’età di vecchiaia; oppure, il metodo già applicato per la cosiddetta “opzione donna”. L’obiettivo dovrebbe essere quello di permettere nuove forme di pensione anticipata che non siano troppo penalizzanti per i lavoratori che sceglieranno questa soluzione, con una percentuale di decurtazione della pensione che tende a diminuire con l’aumento della quota a contributivo delle pensioni miste. Si tratta di lavoratori che potrebbero andare in pensione a 62 o 63 anni invece che a 67.
Legati a questi discorsi ci sono le due importanti ricognizioni che erano state avviate con il governo Conte: la definizione di lavori gravosi e usuranti (per permettere uscite anticipate non penalizzate) e la revisione generale del metodo di calcolo della spesa previdenziale sull’andamento del Pil. Accanto a questi temi generali c’è poi una delle questioni più complicate. Che pensione avranno i giovani che oggi lavorano in un mercato del lavoro precario e incerto che non permette carriere continue? La proposta è quella di introdurre una pensione minima di garanzia. Su questo ripubblichiamo le videointerviste a Michele Raitano, docente della Facoltà di economia all’Università La Sapienza di Roma e al segretario confederale Roberto Ghiselli.

 

Separazione contabile
È stato presentato di recente (16 febbraio) l’ottavo rapporto sulle pensioni del Centro studi Itinerari Previdenziali diretto dal professor Alberto Brambilla che sfata alcuni miti e fa chiarezza anche su alcuni numeri. “Aumentano gli occupati (23.376.000 a fine 2019) e, benché si interrompa il trend in diminuzione dei pensionati del sistema Italia, che crescono fino a 16.035.165 (+30.662 unità), il rapporto attivi e pensionati sale fino a 1,4578, miglior risultato degli ultimi 23 anni e, soprattutto, valore molto prossimo a quell’1,5 che per Itinerari Previdenziali potrebbe garantire la sostenibilità di medio-lungo periodo del sistema. Il tutto mentre l’andamento della spesa per prestazioni di natura previdenziale si conferma sotto controllo, per quanto in crescita: nel 2019, ha raggiunto i 230,3 miliardi di euro. L’incidenza sul Pil è del 12,88%, in linea con la media Eurostat”. La percentuale indicata da Itinerari Previdenziali è ricavata da un calcolo molto semplice. Siccome l’allarme sulla percentuale di oltre il 16% della spesa per pensioni in Italia è basato su un fraintendimento, negli altri Paesi nella voce previdenza non sono considerate alcune spese di natura assistenziale computate in Italia, cosa che abbassa di molto il rapporto sul Pil. Il Centro studi di Brambilla ha semplicemente scorporato i due dati e il risultato (almeno dal punto di vista contabile) colloca l’Italia nella media europea.
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