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Doveva andare tutto bene, o quanto meno dovevamo tutti diventare un po’ più attenti e sensibili ai bisogni del prossimo. Dopo due anni di pandemia, invece, se diamo uno sguardo al variegato universo che potremmo chiamare convivenza sociale, ci accorgiamo che non molto è cambiato. Sembra questa la cornice giusta per inquadrare il mondo dei rider. Anche nella civilissima Bologna, dove Filt e Nidil, le due categorie della Cgil che rappresentano i fattorini della cena a domicilio, hanno deciso di organizzare per domani (sabato 15 gennaio) un presidio in piazza dell’Unità e uno sciopero generale che sarebbe bello riuscisse a paralizzare l’intero brulicante settore per la serata. Dalle 17 in poi, per la precisione.
Immaginate che bello se ci fosse un’adesione totale e se i bolognesi, in un pigro sabato sera ghiacciato di metà gennaio, andassero a letto senza cena, accorgendosi per una volta che chi gliela consegna sulla porta di casa non è, come ancora spesso viene percepito, uno studente che cerca di mettersi qualcosa in tasca senza tanti pensieri o scopre il brivido dell’autonomia per pagarsi la birra o il cinema con la morosa, ma è, sempre più spesso, un lavoratore, magari straniero, magari padre di famiglia, che con quella occupazione deve garantire bollette, affitto, pannolini per i figli e via così.
Sono tanti i nemici che tramano, consapevoli o meno, contro l’emancipazione del rider. C'è l’opinione pubblica che, come detto, se lo figura ancora giovane e scapestrato. C’è, soprattutto, il mondo delle piattaforme senza scrupoli, con una sola eccezione.
“Il settore è polverizzato, le piattaforme di delivery sono tante e applicano condizioni diverse", spiega Carlo Parente, funzionario della Filt Cgil bolognese: "Con la protesta perseguiamo un obiettivo uguale per tutti i lavoratori e mandiamo lo stesso messaggio a tutti i datori: rapporto di lavoro subordinato e applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro. Le due priorità capaci di produrre un miglioramento efficace, dando a tutti le stesse condizioni di partenza e spazzando via tutte le finte forme autonome”. Viene subito in mente un vecchio slogan della Cgil che non ha perso negli anni il suo smalto e il suo profondo senso di giustizia: stesso lavoro, stessi diritti (e quindi stesso stipendio, stesso orario).
Ci dai un’istantanea del settore qui a Bologna? “Questo è un settore che è cresciuto tantissimo con il Covid, ma che era già prima in espansione. È un settore in cui le società di delivery aumentano costantemente il fatturato perché aumenta la richiesta. E il numero di lavoratori aumenta esponenzialmente. I dati certi, però, li abbiamo solo per quello che riguarda la piattaforma Just Eat, l’unica che ha stretto un accordo a livello nazionale con Filt e Nidil per applicare il contratto della logistica e il rapporto di lavoro subordinato: su Bologna i rider con questo datore, tutti assunti a tempo indeterminato, sono circa 540. Poi ci sono quelli che lavorano per altre piattaforme. In tutto direi che il settore conta circa 1.000 addetti”.
Fuori da Just Eat come funziona? “Il pagamento è quasi sempre regolato dal cottimo, quindi sulla singola consegna, e può variare da piattaforma a piattaforma e da momento a momento: oggi un viaggio può fruttare 3,5 euro, domani 4, dopodomani 3. Nessuna vera regolamentazione del rapporto di lavoro e dell’orario. Cito le più grandi, Deliveroo, Glovo, Uber Eats: per chi è con loro non ci sono condizioni di sicurezza standard né un orario definito
L’applicazione del contratto nazionale, prosegue Parente, significherebbe "regolamentare sia il numero di ore sia i carichi di lavoro. E invece, senza un sistema di pagamento a ore, si innesca una corsa al guadagno: chi è a cottimo deve aumentare il numero di consegne per aumentare i guadagni. Non è difficile capire quanto questo meccanismo sia rischioso. Per vari motivi. Perché il rider cerca di fare più in fretta che può. Perché scoppiano guerre tra poveri per accaparrarsi prima degli altri una consegna. Uno degli ultimi episodi di cronaca è arrivato da Rimini dove alcuni rider di Glovo hanno dato vita a una rissa rivendicando ciascuno il diritto a una consegna appena uscita”.
Come potete lavorare sulla sicurezza? “In molti modi. Chiedendo la fornitura dei dispositivi di protezione individuale sul fronte del contagio. Provando a stringere accordi che regolamentino il lavoro nel caso si verifichino determinate condizioni meteo, se piove forte, ad esempio, o se c’è la neve. Con Just Eat abbiamo una discussione aperta per regolamentare condizioni meteo che possano causare la sospensione del lavoro, con altre piattaforme queste trattative non esistono".
Sul fronte sicurezza ci sono poi "le distanze da percorrere: se ho una consegna a 15 chilometri, magari anche fuori dal mio comune, e sono in bicicletta, come fare? Le strade sono illuminate? C’è una pista ciclabile? Non sono elementi trascurabili e anche questo impatta. Discorsi che – ripete il funzionario della Filt Cgil bolognese – riusciamo ad affrontare solo con Just Eat. Non certo con gli altri, anche perché le relazioni sindacali con altre piattaforme sono rarefatte o assenti”.
Ma l’accordo con Just Eat ha allargato la base dei vostri iscritti tra i rider? “Gli iscritti sulle altre piattaforme sono molto rari. Il radicamento è quasi inesistente. È complicatissimo. Ma senz’altro l’accordo rappresenta un segnale forte ed è aumentata la consapevolezza che determinate condizioni possono migliorare la vita dei rider”.
La strada del sindacato è in salita e piena di curve. Il nemico da battere resta il famigerato algoritmo. “Il lavoratore ottiene le consegne in base al proprio ranking", illustra Parente: "Ma il ranking dipende dal numero di consegne che riesci a fare e dal giudizio dei clienti. A sua volta, l’algoritmo è gestito direttamente dalla piattaforma, che quindi può di fatto escludere un determinato rider semplicemente riducendo il suo numero di consegne e quindi abbattendo sostanzialmente il suo ranking. L’algoritmo, insomma, non è un calcolo freddo e imparziale, come qualcuno sostiene, ci vede benissimo e consegna tutto il potere nelle mani della piattaforma”. Ecco perché molti lavoratori sono titubanti e vedono la tessera di un sindacato o la lotta per i propri diritti come elementi di rischio.
La chiave per spezzare questo circolo vizioso sarebbe il rapporto di lavoro subordinato e il pagamento a ore. “Ma resiste ancora uno zoccolo duro di rider – meno forte a Bologna – che non vuole un rapporto di lavoro subordinato perché crede nel falso mito che sia meno redditizio del cottimo".
E c’è anche un fenomeno odioso legato al cottimo. "L’account del singolo rider, lo scrigno nel quale sono archiviate le sue prestazioni lavorative, può essere “prestato” a un altro rider, dando di fatto vita al classico fenomeno del caporalato", argomenta il funzionario Filt: "Chi ha un account prestigioso, in grado di accumulare molte consegne, può decidere di subappaltarlo, in cambio di una percentuale. Un meccanismo odioso che approfitta della composizione sociale dei lavoratori e prospera nella più assoluta mancanza di controlli”.
Quale potrebbe essere la svolta per cambiare una volta per tutte la percezione del rider? “La chiave può essere quella del mezzo di produzione. In questo settore il mezzo di produzione è il mezzo di trasporto, bicicletta o motorino che sia. Oggi, anche per Just Eat, il sistema è il seguente: un lavoratore utilizza il proprio mezzo e si fa carico di tutte le spese, anche di manutenzione. Noi vorremmo, anche con Just Eat, che il datore di lavoro si facesse carico di almeno una parte delle spese, di un contributo per la manutenzione e per l’acquisto"
Per arrivare più in là, conclude il funzionario della Filt Cgil bolognese Carlo Parente, a un sistema nel quale "è il datore che mette il mezzo, di sua proprietà, a disposizione del lavoratore. Come avviene per chi consegna i pacchi, ad esempio con Amazon, dove il furgone è fornito dalla multinazionale. Se riuscissimo a far passare questo concetto, strumento del datore di lavoro e professionalità del lavoratore, allora cambierebbe probabilmente anche la percezione del lavoratore stesso e dell’opinione pubblica. In realtà non è un’idea rivoluzionaria, in tutti i settori di lavoro avviene così”.