Un ministero per la natalità, convegni e iniziative mediatiche oltre che di approfondimento, scritti e prese di posizione. Tutti insieme a gridare allarmati per l’inverno demografico. Certo, i dati accertati dall’Istat dicono che il Italia il numero dei nati continua a calare costantemente: nel 2022 sono stati 392.598 i bambini e le bambine iscritti in anagrafe nel nostro Paese, numero assai inferiore rispetto ai decessi. Ma se il problema è chiaro, le ragioni che lo determinano e quindi le possibili soluzioni così chiare non sono. Almeno nelle proposte politiche di chi ci governa.

Equilibriste

Non tutti i figli desiderati nascono, perché nel decidere di procreare conta il desiderio, ma conta anche che vi siano le condizioni materiali, sociali ed emotive per rispondere positivamente a quel desiderio. Il lavoro femminile è spesso una condizione imprescindibile. A leggere l’ottavo Rapporto “Equilibriste” pubblicato da Save the Children in occasione della festa della mamma, si comprendono – fuor di retorica – un bel po’ di ragioni che stanno dietro la denatalità italiana. Una premessa che è di per sé una causa: “il 12,1% delle famiglie con minori nel nostro Paese (762mila famiglie) è in condizione di povertà assoluta, e una coppia con figli su quattro è a rischio povertà. In uno scenario generale nel quale il numero di nuovi nati e di neomamme sono in picchiata, ma non c’è da stupirsi”.

Poco lavoro, pochi bambini

Se il numero di figli incide sul rischio povertà delle famiglie, il lavoro delle donne è fondamentale per rispondere positivamente al desiderio di maternità. Ma l’Italia è fanalino di coda in Europa per occupazione femminile e tra uomini e donne il divario occupazionale è pari al 17,5%. Se ci sono figli ancora di più. Si legge nel Rapporto: “Nella fascia di età 25-54 anni se c’è un figlio minore, il tasso di occupazione per le mamme si ferma al 63%, contro il 90,4% di quello dei papà. Con due figli minori scende fino al 56,1%, mentre i padri che lavorano sono ancora di più (90,8%), con un divario che sale a 34 punti percentuali”.

Riflette la Cgil

“Il fenomeno della rinuncia al lavoro - afferma Lara Ghiglione, responsabile Politiche di genere di Corso d’Italia - l’abbandono dello stesso, soprattutto nei primi anni di vita dei figli, e la segregazione di genere continuano a essere problemi irrisolti e tali rimarranno in assenza di politiche lungimiranti e investimenti mirati. Sarebbe indispensabile, infatti, contrastare precarietà e lavoro povero delle donne e investire sui servizi per l’infanzia e su politiche per la promozione della condivisione delle responsabilità famigliari e della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, a partire da un potenziamento del congedo obbligatorio per i padri”.

Lavoro povero, lavoro precario

Non solo poco lavoro, ma quello che c’è risulta povero e precario. Si legge ancora nel Rapporto: “Tra i nuovi contratti di lavoro attivati nella fase di ripresa dalla crisi pandemica, nella prima metà del 2022, solo il 41,5% sono contratti che riguardano le donne. Soltanto il 35% dei contratti a tempo indeterminato sono stati attivati per donne, così come il 38,7% di quelli a termine. La percentuale aumenta tra i contratti stagionali (48%) e intermittenti (52%), di natura più precaria e instabile. Per le donne circa la metà delle nuove attivazioni contrattuali sono part-time (49%), mentre per gli uomini solo il 26,2%”.

Chi ha lavoro lo lascia

Il nostro, nonostante proclama e retorica, non è un Paese per mamme che davvero promuove la genitorialità.  Sono ancora i dati a dirlo: “Un quadro poco favorevole alle madri lavoratrici emerge anche dai dati raccolti dall'Ispettorato nazionale del lavoro sulle dimissioni: nel 2021, delle 52.436 convalide totali, il 71,8% si riferiscono a donne (madri) e il 28,2% a uomini (padri). La percentuale delle madri sale oltre l’81% tra giovani fino a 29 anni. Tra gli uomini il 78% delle dimissioni è legato al passaggio ad altra azienda e solo il 3% alla difficoltà di conciliazione tra lavoro e attività di cura, mentre per le donne questa difficoltà rappresenta complessivamente il 65,5% del totale delle motivazioni”.

Insomma, poco lavoro, e quello che c’è povero e precario. Alcuni strumenti che erano stati individuati per aumentare l’occupazione femminile non vengono attuati. Ricordate? Uno degli obiettivi trasversale di Nex Generation Eu è la riduzione del divario occupazionale tra generi, nel Pnrr è indicato allora il vincolo del 30% di occupazione per le donne in ciascun appalto. Ebbene, secondo uno studio dell’Anac ben il 70% delle gare fin qui bandite prevedono una deroga totale a questa norma. Con buona pace delle indicazioni europee.

Inattive non per scelta

I tassi di occupazione e disoccupazione dicono molto ma non tutto: registrano infatti solo chi cerca lavoro e chi ce l’ha. Non raccontano di chi il lavoro nemmeno lo cerca. Guarda caso soprattutto donne. Si legge ancora nel rapporto di Save The Children: “Tra gli uomini senza figli di età compresa tra i 25 e i 54 anni l’inattività caratterizza il 16,4% della popolazione. Per le donne il 24,8%. In presenza di figli le percentuali si distanziano notevolmente: solo il 5,3% dei padri con figli minori è inattivo, mentre è ancora diffusa l’inattività delle donne con figli che caratterizza il 34,7% delle madri di minori. Da segnalare è che una donna su due (52,7%) con figli minori residenti al Sud è inattiva, a mostrare un modello familiare basato sulla divisione tradizionale dei ruoli ancora molto radicato e presente specialmente tra le donne giovani (25- 34 anni) tra cui non lavora e non cerca lavoro il 63,5% delle donne con almeno un figlio minore, quasi due donne su tre”.  

La critica

Davvero sconfortante ciò che il primo esecutivo guidato da una donna non fa. Dice ancora Ghiglione: “Il nostro governo ha altri progetti per le donne: si preoccupa di incentivare la natalità patrocinando convegni nei quali soli relatori uomini disquisiscono sul corpo delle donne, accetta di buon grado di perdere gli investimenti del Pnrr che avrebbero creato lavoro di qualità per giovani e donne, tollerando le numerose deroghe alla condizionale del 30% dei posti di lavoro per queste due categorie ancora troppo discriminate. Trascurando un elemento dirimente: la natalità è più alta nei Paesi dove la qualità del lavoro delle donne è maggiore”.

Al Sud va peggio

Tra i divari che il Pnrr dovrebbe contribuire a ridurre c’è quello tra settentrione e meridione. Ebbene, quella che una volta era la zona di Italia dove nascevano più bimbi e bimbe oggi è quella delle culle vuote. E guarda caso è l’area del Paese con il tasso di occupazione femminile più bassa e con il divario tra uomini e donne al lavoro più alto, 23,8 %, ben 10 punti in più rispetto al resto del Paese. E se uno degli strumenti per aiutare le donne nella scelta della maternità è la disponibilità di servizi per l’infanzia a cominciare dai nidi, non solo al Sud ce ne sono molti meno che al Nord, ma anche in questo caso sembrano esser traditi gli obiettivi del Pnrr. Non solo perché c’è ritardo negli appalti per la costruzione degli asili, ma anche perché il vincolo del 40% delle risorse per i singoli obiettivi dal destinare al meridione non è rispettato nemmeno in questo caso. Poi perché una volta costruiti gli asili, se i Comuni non hanno le risorse per assumere personale e pagare luce, acqua, gas e Tari come si farà a farli funzionare? Afferma ancora la dirigente sindacale: “L’autonomia economica è fondamentale anche per prevenire e contrastare il dramma della violenza sulle donne, i dati della ricerca sono ancora più preoccupanti; altro che astenersi dalla ratifica, da parte dell’Ue, della convenzione di Istanbul”.

Sabato in piazza a Napoli

È il terzo sabato di mobilitazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil, sabato 20 maggio. Non a caso la piazza sarà quella della Rotonda Diaz del capoluogo partenopeo, e occupazione femminile e potenziamento del welfare sono punti qualificanti della Piattaforma. “Anche per queste ragioni – conclude Ghiglione - è fondamentale che le donne siano parte attiva nel percorso di mobilitazione unitaria che vedrà la prossima tappa il 20 maggio a Napoli e in Sardegna. Se vogliamo che le cose cambino dobbiamo ritornare a essere protagoniste con le nostre rivendicazioni”.