Può accadere che alcune vicende biografiche riescano a riassumere e a interpretare agli occhi dei contemporanei (e soprattutto dei posteri) il "senso" di una epoca. È questo il caso di Luciano Lama che ha contribuito a ridefinire l'identità del mondo del lavoro, passato da una società rurale a una società industriale e infine alla società dell'informazione. Attraverso la sua vicenda si ha infatti la possibilità di ricongiungere la storia dell'"Italia del lavoro" alla storia della Repubblica. 

La scuola più dura della vita di Luciano Lama fu sicuramente la Resistenza. Una esperienza che per lui fu un dovere morale e lo mise a confronto con tutto il dramma dell’uomo sprofondato nella barbarie: la guerra nazifascista, le deportazioni, le uccisioni di massa, l’annullamento della dignità umana. Gli fece toccare con mano il prezzo della libertà, del riscatto etico e morale. Una esperienza, segnata tra l’altro dalla morte del fratello Lelio. È nella sua Emilia Romagna che Lama si trova a praticare la “pianurizzazione” della Resistenza teorizzata da Arrigo Boldrini. La difesa della democrazia e della Costituzione divenne per la classe dirigente che aveva condiviso i valori della Resistenza un compito primario e ineludibile. E i lavoratori, divenuti per la prima volta, con la Repubblica, cittadini dello Stato e parte integrante della nazione, sarebbero stati i custodi delle conquiste fondamentali della guerra di Liberazione.

Ecco perché i partiti antifascisti e il sindacato sarebbero rimasti sempre un presidio democratico nei tanti momenti bui che la Repubblica avrebbe affrontato negli anni successivi. Lama condivideva con fermezza le premesse che portarono così a schierare sempre i lavoratori in difesa della democrazia.  Le divisioni politiche, il sentimento di esclusione delle masse dallo Stato, le polemiche feroci tra comunisti e socialisti, l’incomunicabilità del mondo cattolico e di quello socialista erano tutti stati fattori di debolezza che il fascismo aveva utilizzato a suo favore. Quella situazione non si doveva più presentare e quindi, sulle premesse di valore occorreva trovare una convergenza del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni. Inoltre, per tutta la sinistra italiana c’era il timore che il paese fosse una democrazia molto fragile, costantemente in pericolo, e che lo Stato, e quindi le forze preposte alla sicurezza e all’ordine, non fossero totalmente affidabili.

Questa convinzione nasceva della contorsione subita dalla Costituzione a partire dal 1947, anno della cacciata dei socialisti e dei comunisti dal governo e inizio della guerra fredda più ideologizzata: la Costituzione formale antifascista era divenuta presto una Costituzione materiale anticomunista. Il patto ad excludendum verso il Pci, la violenza delle forze di polizia nella gestione dell’ordine pubblico, i processi ai partigiani, la liberazione di criminali fascisti e la continuità col passato regime di una parte importante della burocrazia, della Magistratura, dell’esercito, delle forze di polizia, e la gestione della politica interna da parte del binomio De Gasperi-Scelba, la minaccia della restrizione delle libertà democratiche avevano di fatto creato una sorta di “democrazia congelata”.

Per questo motivo il “presidio delle piazze”, peraltro topos della cultura social-comunista, divenne una parte importante della strategia del Pci, del Psi, della Cgil e anche dell’Anpi. Queste le ragioni per cui Luciano Lama, come altri dirigenti sindacali, introiettò la profonda convinzione che il sindacato fosse un presidio fondamentale per la difesa della democrazia e non esitò mai a schierare la Cgil, da segretario generale, a difesa della Repubblica contro ogni forma di terrorismo.

Nel pensiero e nell'azione di Luciano Lama sussiste un fecondo "corto circuito", continuamente riemergente, tra il sindacato, le trasformazioni del lavoro e la "qualità" della democrazia repubblicana. La vicenda di Lama è quella di un dirigente che offre l'opportunità di mettere in correlazione l'azione di una organizzazione sociale di massa con i valori fondativi della Repubblica (l'antifascismo e il primato del lavoro) e con le pratiche volte a elevare i lavoratori a cittadini consapevoli del loro ruolo nella vita democratica. Lama si rese interprete di un modello pedagogico di apprendistato alla democrazia che teneva insieme gli aspetti sociali e culturali, e non solo quelli più propriamente sindacali di natura economica e contrattuale. Muovendo dai suoi scritti si possono evidenziare i momenti più rappresentativi del suo modo di intendere il compito civile che sentiva di dover svolgere.

Su piani diversi emerge il rapporto di filiazione e di ereditarietà tra Lama e Di Vittorio, espresso dal primo con grande empatia umana: «Di Vittorio è stato per me, più di ogni altro dirigente, e non soltanto per aver lavorato vicino a lui per dieci anni, l'uomo che ha più contribuito alla formazione della mia personalità, del mio modo d'essere e di militare nel sindacato e nel partito».

Riconosciutagli una dote di "educatore" che nella sua azione egli stesso avrebbe poi egualmente mostrato, Lama indicò in Di Vittorio, sia come costruttore della Cgil unitaria sia come relatore all'Assemblea Costituente sui temi del lavoro, l'artefice di un sindacato capace di esercitare una influenza decisiva per la nuova Italia democratica. Valeva insomma per Di Vittorio, così come per Lama, una concezione secondo la quale sussisteva "la necessità dell'impegno politico del sindacato sulle grandi questioni di libertà, della democrazia, delle istituzioni democratiche … per salvaguardare i valori fondamentali dello Stato democratico e sul terreno della difesa delle istituzioni".

Nell'intervista sul sindacato concessa a Massimo Riva e pubblicata nell'autunno del 1976, Lama faceva il punto sui primi trent'anni di vita della Repubblica e sui dilemmi che si intravedevano circa la crisi di legittimità della democrazia italiana, causa gli effetti congiunti della recessione economica e del terrorismo. Guardava ai caratteri genetici della democrazia repubblicana delineando, al tempo stesso, alcune sfide per il futuro del sindacato e della sinistra, tra l'Italia e l'Europa.

Si pensi, ad esempio, all'impegno che Lama profuse allo scopo di legittimare il mondo del lavoro attraverso il pubblico riconoscimento dei fondamentali diritti sociali contemplati dalla Costituzione. Nella sua prima esperienza parlamentare, tra il 1958 e il 1968, Lama portò nelle aule di Montecitorio la diretta conoscenza dei problemi del mondo del lavoro. Egli si interessò in particolare di due questioni: il trattamento economico e normativo dei lavoratori del pubblico impiego e la regolamentazione del licenziamento. Fu soprattutto in merito a questo secondo tema che ebbe modo di emergere quale fosse la concezione che Lama aveva del sindacato.

L'origine della questione risaliva al 1963, quando un disegno di legge per regolamentare il licenziamento avviò il suo corso parlamentare, per diventare operativo tre anni dopo. Intervenendo nel dibattito parlamentare, il 5 maggio 1965, Lama rendeva un tributo a Giuseppe Di Vittorio.

Nel 1952, secondo l'idea che il lavoro poteva garantire un'Italia più civile e che il sindacato ne doveva essere l'interprete, egli aveva per primo avanzato la proposta per uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Evidenziata la contraddizione manifesta tra i principi della Costituzione e quell'articolo del Codice civile (l'art. 2118) che permetteva il licenziamento senza specificarne i motivi, Lama ricordava – utilizzo le sue parole – «l'immensa quantità di soprusi, di ingiustizie, di iniquità che sono state messe in danno dei lavoratori italiani», rivendicando l'urgenza di porre un argine ad una tale pratica.

Al centro dell’azione sindacale di Lama vi sono tre princìpi: l’unità dei lavoratori, l’autonomia sindacale e la democrazia sindacale. Le prime due, Lama le ha sicuramente ereditate da Di Vittorio, che pensava che l’unità fosse la premessa della forza del movimento dei lavoratori e si era battuto già prima del fascismo per l’unità fra i lavoratori del Sud e quelli del Nord, nonché fra i lavoratori della terra e quelli delle fabbriche. Poi, dopo l’avvento di Mussolini, per l’unità fra comunisti e socialisti. E infine, dopo la rottura della Cgil unitaria (1948), aveva indicato l’obiettivo della riconquista dell’unità fra Cgil, Cisl e Uil.

Coerentemente a questa visione della centralità del tema dell’unità dei lavoratori, già dal tempo del Patto di Roma, Di Vittorio propugnò l’autonomia della rappresentanza sociale, esercitata dai sindacati, dalla rappresentanza politica, esercitata dai partiti. Perché temeva quel che poi accadde, ovvero che il conflitto tra i partiti antifascisti, riapertosi dopo la Liberazione, lacerasse l’unità sindacale.

Ma Lama deve molto anche ad Agostino Novella. Dopo la morte di Di Vittorio, infatti, che come dirigente sindacale era stato particolarmente legato all’esperienza “orizzontale” delle Camere del lavoro, Novella, da nuovo segretario generale della Cgil, intraprese un rafforzamento delle strutture “verticali”, ovvero delle categorie, a partire da quelle dell’industria.

Ed ecco dunque Lama misurarsi con la nuova unità che nacque in fabbrica dentro lo sviluppo capitalistico. Nel 1960, quando Lama era Segretario generale della Fiom già da due anni, si accese la lotta degli elettromeccanici che aveva a Milano il proprio epicentro. E così Lama prima contrastò, poi accettò l’idea della manifestazione sindacale da tenere il 25 dicembre davanti al Duomo di Milano, dove officiò il Cardinale Giovanni Battista Montini. È il Natale in piazza, l’evento simbolo dell’avvio della riscossa operaia che attraversa tutto il decennio, fino all’Autunno caldo del 1969.

Non solo. Il ciclo di lotte operaie del ‘68-69, che culminò nel gennaio del 1970 col rinnovo del contratto dei metalmeccanici, portò anche, in un primo tempo, all’elezione, in un numero crescente di fabbriche, di delegati di reparto; e poi alla riunione di questi delegati nei nuovi Consigli di fabbrica che divennero ben presto strutture unitarie e articolazioni di base di una nuova, più esigente, democrazia sindacale. L’onda lunga dell’Autunno caldo portò inoltre, nel 1970, all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori. “La Costituzione entrava finalmente nelle fabbriche”.

Andando oltre gli stessi insegnamenti dei suoi maestri, Lama divenne così, assieme a Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, uno dei protagonisti di quella rivoluzione organizzativa che approdò nel 1972 al Patto federativo che diede vita alla Federazione Cgil-Cisl-Uil. Una federazione unitaria, autonoma dai partiti politici e basata sui Consigli di fabbrica. Ma a questo punto per Lama la forza del movimento operaio “non deve restare chiusa in fabbrica”; al contrario, “deve riversarsi nella società”. Lama si fece così propugnatore, al Congresso di Bari del 1973, della “strategia delle riforme”. Una strategia in base alla quale il sindacato, che si era fatto soggetto politico, voleva migliorare non solo le condizioni di lavoro, ma l’intera condizione sociale dei salariati. Una strategia che otterrà nel 1978 il suo risultato più significativo, e duraturo, con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale.

Gli anni ‘70 furono anche gli anni della strategia della tensione e del terrorismo. Una fase inaugurata con le bombe del 12 dicembre 1969 che segnò per il paese “la perdita dell’innocenza”. Quello che successe a partire dal giorno dopo, i ritardi nelle indagini, le collusioni, i depistaggi, il coinvolgimento di pezzi importanti dello Stato che rispondevano a logiche e fedeltà diverse da quelle naturali, rafforzarono in Lama la convinzione che la giovane Repubblica fosse esposta a tentazioni autoritarie contro le quali solo il movimento operaio e contadino organizzato poteva costituire un argine decisivo.

La reazione era nelle corde naturali della sinistra, abituata a giudicare le minacce di autoritarismo di stampo fascista collegando il pericolo dell’oggi con l’esperienza della Resistenza. Inoltre tutta la riflessione interna che l’organizzazione aveva maturato negli anni sessanta intorno alle premesse di valore aveva fortemente ancorato i valori democratici alla coscienza dei lavoratori iscritti alla Cgil. Con la decisione di indire lo sciopero generale Cgil, Cisl e Uil, partecipando massicciamente ai funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana, guidarono la mobilitazione popolare per difendere la democrazia e la convivenza civile, isolare gli assassini e i loro mandanti e chiedere verità e giustizia. I sindacati tracciarono così una strada da seguire in futuro.

La categoria della violenza fascista era una categoria che la sinistra conosceva bene e fronteggiava con naturalezza. Da questo punto di vista fu la strage di Piazza della Loggia a rappresentare una svolta nella stagione delle stragi inaugurando un modello di autogestione dell’ordine pubblico e di “vigilanza democratica” che la Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil adottò come strumento di contrasto al terrorismo. Nei giorni immediatamente successivi alla strage la Camera del lavoro divenne la centrale operativa nella gestione dell’ordine pubblico e la classe operaia assunse di fatto funzioni di supplenza rispetto allo Stato.

Il discorso che Luciano Lama pronunciò durante i funerali di Stato, come del resto la sua stessa presenza in una città di fatto controllata dai lavoratori, fu il frutto di un confronto serrato tra la Federazione Unitaria e i rappresentanti delle istituzioni. Evento di portata “straordinaria”, perché per la prima volta un rappresentante dei lavoratori partecipava come oratore in occasione dei funerali di Stato rompendo di fatto il protocollo formale. Resistenza, Costituzione, sviluppo economico con forte contenuto sociale, unità delle forze antifasciste, tenuta del sistema democratico. Nel discorso pronunciato a Brescia si trova in sintesi tutto il bagaglio culturale e valoriale di Lama.

La Cgil, dalla metà degli anni settanta, si trovò a confrontarsi con quella diversa sensibilità politica ed “esistenziale” della classe operaia, con quel diverso paradigma che Edward Thompson ha riassunto nella categoria interpretativa della “opacità”. La forzatura favorevole degli equilibri di potere nella società, nella politica e soprattutto nell’economia, diede luogo a durissimi contraccolpi, a prolungati cicli di reazione classista, anche al di fuori dei canoni prevedibili, da parte dell’insieme dei ceti e delle istituzioni dominanti

Quando il fenomeno della lotta armata si presentò nella sua interezza eversiva i dirigenti del sindacato compirono una scelta moralmente ineccepibile, coraggiosa e degna della tradizione resistenziale democratica e costituzionale del partito e del sindacato: la lotta frontale fino in fondo per sconfiggere ed estirpare il terrorismo e la violenza politica all’interno del mondo del lavoro e in tutti i settori della società e delle istituzioni deviate, anche ricorrendo all’integrazione e alla sostituzione spesso delle istituzioni di tutela dell’ordine democratico da parte dello Stato.

La sfida più terribile, quindi, che Luciano Lama si trovò ad affrontare nei lunghi anni della sua segreteria generale fu indubbiamente quella del terrorismo. La principale preoccupazione politica del segretario generale della Cgil fu sempre quella di sollevare una barriera invalicabile tra il terrorismo e i lavoratori. Un impegno totalizzante che nasceva dalla convinzione della debolezza della democrazia italiana e la sua esposizione ai rischi di crollo. Questo combinato disposto trasformò l’impegno del sindacato in una priorità assoluta.

La Cgil, seppure con molta fatica e quasi costretta dalla propria identità di soggetto sindacale fu indotta a una lenta, contraddittoria ma alla fine univoca elaborazione mantenendo una strategia di persistente attenzione, di non estraneità, di presenza, attraverso i suoi terminali organizzativi nei luoghi di lavoro con l’evidente intento di non lasciare che l’iniziale fenomeno del radicalismo eversivo dei gruppi di lavoratori più politicizzati e di quelli che cominciavano a essere penalizzati dalla riscossa padronale, si potesse trasformare in una vera e propria valanga antisindacale e quindi travolgere con il sistema dei partiti, già in affanno, lo stesso quadro politico-costituzionale e la tenuta economica del Paese.

Lama conosceva perfettamente la necessità per qualsiasi formazione combattente di muoversi in un terreno sociale favorevole. La Resistenza aveva vinto grazie all’adesione del mondo contadino e di quello operaio, grazie alla possibilità di supportare la lotta armata con la protezione, la collaborazione, l’aiuto di un fronte interno. Conosceva, quindi, meglio di altri la necessità di tagliare qualsiasi relazione tra i terroristi e la società nelle sue componenti più attive e numerose: quelle del mondo del lavoro. Non ci fu tema, nella sua lunga parabola sindacale, che lo impegnò soprattutto moralmente più del terrorismo. E per nessuna battaglia si spese con maggiore forza e maggiore coraggio politico e personale.

Il terrorismo non sarebbe stato sconfitto se non fosse stato rigettato completamente e senza ambiguità dal movimento sindacale. Senza un’opera continua di sensibilizzazione dei lavoratori al problema, senza un’azione politica, culturale e ideale di margine da parte del sindacato la sola repressione non poteva bastare. L’esempio di Guido Rossa è appunto la testimonianza di questa complessa interazione tra riaffermazione delle ragioni dell’agire sindacale e necessità di coniugare la militanza nei luoghi di lavoro alla logica e ai valori del sindacalismo confederale.

In questo contesto la Cgil tornò a sperimentare i tratti di originalità che contraddistinsero il movimento sindacale italiano facendone un unicum nel panorama europeo.  Una Repubblica nata sul compromesso costituzionale con le forze del lavoro e che negli anni settanta arrivò a reggersi sulla centralità sindacale fece sì che in quel tornante decisivo, come negli altri della storia del Paese, fosse il sindacato a farsi carico della tenuta delle istituzioni anche e fondamentalmente al di là del funzionamento classico di una democrazia liberale.

Di fronte all’irrompere del fenomeno terroristico l’autonomia, alla prova della violenza militarizzata e del terrorismo, divenne un terreno concreto e impervio sul quale e dal quale nacque un rafforzamento per la Cgil, e per il movimento sindacale nel suo insieme, delle ragioni stesse della propria cultura centrata storicamente sul rifiuto dell’eversione e sull’affermazione dell’alterità fra le forme dell’organizzazione, della lotta sindacale e le forme dell’azione eversiva e violenta. E ciò anche attraverso una ridefinizione dei ruoli con la rappresentanza partitica.

La concezione del sindacato che Lama delineò nel corso della sua segreteria, contemperando la congenita natura contrattuale con l'altrettanto intrinseca vocazione politica, risultò pertanto il frutto di un amalgama meditato di innovazioni e di richiamo alla forza della tradizione. Essa concorse a farne sempre più un'organizzazione sociale in grado, nei luoghi di lavoro e nella vita pubblica, di innervare di capillari istanze di partecipazione la democrazia di massa, esercitando una funzione sia di "mediazione" (tra rivendicazioni e conflitti) sia di coesione e di integrazione nazionale.

Ecco allora che il lascito di Lama e della sua azione nella vita pubblica italiana assume una sua, peculiare e sempre feconda, attualità. La visione del sindacato come organizzazione che tutela precisi interessi di classe ma, che nell’ambito dell’interesse generale, opera per il consolidamento della democrazia repubblicana si lega al ruolo centrale assegnato da Lama alla cultura di massa e alla circolazione delle idee di emancipazione che le sue diverse espressioni favoriscono. Sono pertanto molteplici le suggestioni che una riflessione sulla figura di Luciano Lama fanno scaturire: esse rinviano a una rinnovata immagine di "Italia civile" da rilanciare e da corroborare di altrettante figure davvero esemplari.