I dati pubblicati dall’Inps sulla Gestione Separata negli anni 2015-2020 offrono uno spaccato del nostro mercato del lavoro e delle difficoltà reddituali e contributive di oltre 570mila lavoratori, tra cui 260mila collaboratori (compresi quelli della PA) e 310mila professionisti con Partita Iva esclusiva (cioè senza altra iscrizione previdenziale). Dall’elaborazione di NIdiL Cgil nazionale emerge che i redditi medi di questi lavoratori, già bassi prima della pandemia, si sono fermati nel 2020 a circa 9.100 euro lordi (-3% sul 2019) per i Co.Co.Co. e 14.500 euro (-14% sul 2019) per le Partita Iva che, per le donne, diventano rispettivamente 6.700 euro (27% in meno rispetto alla media) e 12mila euro (18% in meno rispetto alla media). I collaboratori fino a 35 anni hanno redditi medi di poco superiori a 5.000 euro annui (-45% sul totale), per le donne siamo sotto i 4.800 euro. Nella stessa fascia di età, le Partite Iva registrano un reddito medio lordo inferiore a 11mila euro (-25% rispetto al totale), se donne poco sopra 10mila euro. Retribuzioni e situazioni poco al di sopra o sotto la soglia di povertà relativa, con una contribuzione ai fini pensionistici di pochi mesi ogni anno.

Borghesi: riformare il mercato del lavoro
Per Andrea Borghesi, segretario generale NIdiL Cgil “La drammatica condizione occupazionale di una parte non trascurabile dei lavoratori italiani suggerisce che qualsiasi ragionamento, anche previdenziale, dovrebbe partire da una revisione normativa del mercato del lavoro, per eliminare da subito le tipologie precarizzanti ed evitare il dumping salariale, definendo parametri minimi di costo del lavoro validi per tutti i lavoratori al di là della tipologia di impiego e introducendo ammortizzatori sociali universali. Viene fuori poi una criticità specifica e ulteriore per giovani e donne.”  
Per i meccanismi di calcolo della Gestione separata, collaboratori e professionisti, poi, non raggiungono mediamente l’anno pieno di contribuzione ai fini pensionistici: 6 i mesi accreditati mediamente per i collaboratori nel ’20 e 10 mesi per i professionisti. Questo significa che per raggiungere il requisito minimo per la pensione (pari a 20 anni di contributi) un collaboratore che dovesse permanere in questa condizione per tutta la carriera lavorativa ci metterebbe tra 33 e i 34 anni. Sempre che gli altri due paletti previsti dalla legge per l’accesso alla pensione, l’età minima (oggi a 64 anni e tre mesi ma crescente) e l’importo minimo siano raggiunti, cosa che con redditi così bassi è davvero improbabile.

Le cifre della gestione separata
Addirittura, sempre per le regole specifiche della GS Inps, una quota non trascurabile di questi lavoratori non avrà neanche un mese di contribuzione a fini previdenziali: più di 105mila lavoratori, quasi 75mila Co.Co.Co. e più di 29mila Partite Iva – il 18% del totale – sono infatti contribuenti “netti” alla Gestione Separata. Nel supermarket delle tipologie lavorative, ci sono poi lavoratori sconosciuti all’Istituto di previdenza perché i loro rapporti di lavoro non prevedono contribuzione, come i collaboratori autonomi occasionali sotto i 5.000 euro di reddito (tra questi, decine di migliaia di persone quasi tutti i rider e i lavoratori delle piattaforme, ma anche nella cultura) e i collaboratori sportivi, circa 500mila, sotto i 10mila euro e senza Inps, con un futuro previdenziale del tutto incerto.

Una pensione per i giovani
Una politica per i giovani, dovrebbe partire dall’analisi di questi dati, non spacciando la riforma previdenziale Fornero come una riforma le nuove generazioni che in queste condizioni possono ambire al più all’assegno sociale pur avendo lavorato una vita. Va messa in campo una pensione contributiva di garanzia che stabilisca un trattamento minimo per coloro che hanno avuto carriere discontinue, precarie o a basso reddito e un accesso flessibile alla pensione dai 62 anni per tutti i lavoratori. Questa proposta è al centro delle richieste di Cgil, Cisl, Uil da tempo ma evidentemente nel dibattito pubblico si preferisce contrapporre giovani ad anziani, precari a lavoratori stabili invece di ragionare della sostenibilità sociale del sistema produttivo e della Previdenza, di qualità del lavoro.