“Mio marito è stato sequestrato dalle milizie libiche, è stato rinchiuso in quattro carceri diversi, ha ricevuto delle percosse, senza cibo, in compagnia di topi e scarafaggi. Ha subito violenze psicologiche e fisiche, da cui tuttora ancora non riesce a riprendersi”. Cristina Amabilino ricorda come un incubo i 108 giorni di prigionia del suo Bernardo, uno dei 18 marinai rapiti e rinchiusi nelle galere libiche, una vicenda surreale fatta di sofferenza per lei e per i suoi figli. “Giorni pesanti, soprattutto perché abbiamo chiesto aiuto e non siamo stati aiutati. Il governo nazionale non ci ha trattato bene. E anche quando la vicenda è finita è arrivata un’altra umiliazione”, dice.

Cristina si riferisce al decreto firmato dal governo che ha stanziato 500mila euro a titolo di indennizzo, di cui 400mila destinati alle aziende e 100mila per i pescatori. “La ripartizione è stata di 30 euro al giorno per 91 giorni – fa notare Cristina -. La cifra non mi interessa, non c’è cifra che può ripagare quello che è successo. Ma 91 giorni perché? È come se avessero equiparato il sequestro alla cassa integrazione. Mica che sabato e domenica venivano a casa, o li mandavano in hotel”. Oggi Bernardo ha cambiato lavoro, si è imbarcato in una nave oceanografica di ricerca, ha avuto l’occasione e l’ha presa al volo perché lì è più sicuro. “Ma questo non vuol dire che il settore della pesca debba finire – conclude Cristina -. I nostri pescherecci devono essere tutelati. Nessun essere umano deve rischiare di subire queste torture, specie un lavoratore che esce da casa per portare il pane alla famiglia”.

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