L’iniziativa “Isola senza catene” promossa dalla Cgil Sicilia insieme a Flai e Fillea di quella regione è un atto molto importante. Un atto che ha rafforzato l’azione del sindacato nell'isola e ha contribuito, nei mesi di giugno e luglio dello scorso anno, ad accendere nuovamente i riflettori per tenere alta la guardia su un fenomeno così presente nel mondo del lavoro. Ha denunciato quanto sfruttamento, lavoro nero e caporalato siano diffusi in tutti i territori ed in diversi ambiti lavorativi.

Con questa importante mobilitazione, non solo mediatica ma fatta anche del coinvolgimento di lavoratrici e lavoratori, abbiamo ottenuto maggiore forza nel rapporto con le istituzioni per riportare al centro dell’attenzione della politica e dell'amministrazione un tema che richiede una risposta chiara e forte da parte delle istituzioni stesse.

Dal V Rapporto “Agromafie e Caporalato”, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, emerge quanto sia pervasivo il fenomeno dello sfruttamento e del caporalato in agricoltura; quanto sia presente al Sud come al Nord del nostro Paese e come approfitti, senza scrupoli, di lavoratori vulnerabili, italiani o stranieri che siano, ridotti in tali condizioni a causa della diffusa illegalità o per le deboli politiche di accoglienza aggravate dai cosiddetti “decreti Salvini” sulla sicurezza. Parliamo di 180mila persone che spesso sono soggetti a ricatti e sfruttamento e costretti in tantissimi casi a vivere in ghetti e baraccopoli.

Il Rapporto fotografa la realtà, ma raccoglie anche le esperienze di denuncia e di riscatto per raccontare che ci si può sottrarre al giogo degli sfruttatori che possono presentarsi in maniera diversa a seconda della situazione. E questa iniziativa, che ha toccato tutte le province siciliane, ha avuto il pregio di mettere in luce come, a seconda anche del territorio, il fenomeno si manifesti in maniera diversa.

Passiamo dallo sfruttamento attraverso il caporale che si dà come strumento nelle mani dell’impresa e che serve anche a “governare” i lavoratori, quindi un caporale che diventa caposquadra e non solamente autista, fino al caporale che assume il ruolo di responsabile della produzione e che lucra su tutte le attività che svolgono i lavoratori.

Possiamo però trovarci di fronte a meccanismi più sofisticati, dove i caporali vestono in giacca e cravatta e si nascondono dietro agenzie interinali. Oppure dove lo sfruttamento si annida nell’attività di consulenti del lavoro che operano in modo illecito, emettendo buste paga formalmente corrette ma che nascondono sottosalario, con giornate di lavoro svolte ma non denunciate e contributi non versati all’Inps. Molto spesso i giudici non riescono a riscontrare l’irregolarità, perché i documenti formali sono in perfetta regola e coprono uno sfruttamento ben organizzato. Penso al caso tristemente famoso di Paola Clemente e alle fasi istruttorie del processo che rischiava, per questi motivi, di non riuscire nemmeno a partire.

Tanti anni di esperienza su questo tema ci possono però far affermare che il caporalato è solo un anello della catena dello sfruttamento che fa prigioniero il lavoratore o la lavoratrice. La responsabilità di tale “filiera dell’illegalità” è certamente sempre in capo all'impresa agricola che sceglie di stare nell’illegalità per competere nell’economia. È il datore di lavoro che detta le condizioni e le regole al caporale, che poi ingaggia i lavoratori con la “paga di piazza” di quella provincia e per quel prodotto. Mai il contrario. E chi beneficia maggiormente di questo sistema, che ruota attorno al caporale, è sempre il datore di lavoro che, in questo modo, fa anche concorrenza sleale alle altre imprese che applicano i contratti correttamente. Questo l’ha ben compreso anche il legislatore che, nella legge 199 del 2016, configura il reato di sfruttamento in capo al datore di lavoro anche nel caso in cui non vi sia la presenza del caporale.

Dobbiamo insistere nel tenere accesi i riflettori su questi temi, dobbiamo essere tenaci per cacciarli dall’economia agricola ed evitare che diventi un vero e proprio modello produttivo. La nostra è la lotta per un’economia agricola legale e giusta, che rispetti i lavoratori, l’ambiente e il territorio. La stiamo mettendo in atto anche nella discussione sulla nuova Politica agricola comune, sostenendo l’approvazione di una clausola sociale che preveda di non erogare gli aiuti comunitari a quelle imprese agricole che non applicano correttamente i contratti e le leggi sociali ai propri dipendenti.

Se questa clausola verrà approvata si arricchirà di un ulteriore tassello quell’insieme di norme e azioni che abbiamo contribuito a creare in anni di mobilitazioni e denunce, a partire dall’approvazione della legge 199/2016 fino all’istituzione, da parte del ministero del Lavoro e del ministero dell’Agricoltura, di un tavolo permanente per il contrasto al caporalato e al lavoro nero. Spezzare le catene dello sfruttamento e ridare dignità al lavoro agricolo è la nostra più grande battaglia di giustizia.

Giovanni Mininni è segretario generale della Flai Cgil