Secondo i dati più recenti forniti dal Cnel in Italia risultano presenti 854 contratti di lavoro. Tra questi circa 400 sono contratti pirata, in aumento costante proprio negli ultimi anni. Ne abbiamo discusso con il segretario confederale della Cgil, Ivana Galli.

Prima di tutto cos'è un contratto pirata?

È un contratto che riproduce la struttura di quelli firmati da Cgil, Cisl e Uil, ma con un salario più basso. Si tratta di accordi firmati da aziende e sigle sindacali spesso costituite ad hoc, che fanno dumping e concorrenza sleale al ribasso, in particolare sulla parte normativa e sul salario accessorio. Da una parte riducono le agibilità sindacali, dall'altra pagano di meno i lavoratori: visto che l'Inps applica le stesse aliquote previste per i contratti nazionali sulla parte fissa, l'esercizio della pirateria avviene sulla quota accessoria della retribuzione. Poi, sempre nell'ambito di questi contratti, c'è il tema della costituzione dei fondi bilaterali, che certamente non migliora il sistema della bilateralità, anzi.

E i più colpiti sono sempre i lavoratori.

Certo. Un contratto pirata di fatto abbassa le tutele di chi lavora in un settore o in un'azienda, attraverso l'erosione dei diritti siglati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Per questo si chiamano pirata: perché scippano la qualità dei diritti. Ma attenzione, non sono solo i lavoratori a rimetterci.

Chi altro viene danneggiato?

Tutto il sistema. L'abbassamento di diritti e salari consente alle aziende scorrette una competizione al ribasso, che vede penalizzate quelle che rispettano il lavoro, in una forma di dumping verso gli imprenditori che rispettano norme ed applicano i contratti giusti. Il colpo più duro viene inferto alle categorie fragili: i giovani, coloro che nelle zone ad alto tasso di disoccupazione sono costretti ad accettare condizioni di lavoro al ribasso. Ma si tratta di un danno generale: ci perdono le aziende virtuose, come detto, e allo stesso tempo la riduzione della qualità della vita crea l'emersione di nuova rabbia e malcontento sociale. È l'esatto opposto di quello che serve per aiutare la ripartenza del Paese nel periodo post-Covid: se bisogna aumentare i salari e dare certezze alle persone, la pirateria va esattamente nella direzione opposta.

Qual è la ricetta giusta per combattere i contratti pirata?

Serve una legge sulla rappresentanza. La disintermediazione degli ultimi quindici anni ha indebolito i corpi intermedi e favorito una proliferazione di associazioni, che a loro volta si sono frantumate in tante sigle. E poi ci sono sigle costituite ad hoc per firmare contratti scorretti. Un fenomeno trasversale che investe tutti i settori: la pirateria può riguardare un'azienda, un comparto o una regione. Attualmente ogni impresa può applicare il contratto che ritiene più vantaggioso, la norma lo consente: per questo la definizione di una legge sulla rappresentanza è sempre più urgente e non rimandabile.

In questo senso come si sono mosse le parti sociali?

Il 10 gennaio del 2014 fu firmato il Testo unico sulla rappresentanza, che comprende quasi 200 sigle sindacali. Un accordo che, naturalmente, riguarda solo le organizzazioni che hanno aderito. Ora chiediamo una legge che prenda a riferimento i contenuti di quelle intese, per costruire delle regole e stabilire chi può firmare un contratto che si applica a tutti. I lavoratori devono avere la certezza di essere rappresentati correttamente. E non si tratta di certificare l'esistenza dei sindacati, al contrario: chi si assume l'onere di firmare un contratto deve essere qualificato e avere i numeri per farlo. Basti pensare che nell'arco di otto anni il numero dei contratti rilevati dal Cnel è cresciuto in modo esponenziale proprio per colpa della pirateria, si fanno continuamente accordi ritagliati ad hoc. I contratti pirata sono un cancro come il lavoro nero. Una sciagura che fa male a tutti. Per questo occorre fare un'azione comune con Cisl e Uil per arrivare ad ottenere la legge.