PHOTO
Il 9 novembre 1943, in occasione dell’apertura dell’anno accademico, Concetto Marchesi lancia agli studenti dell’ateneo di Padova e a tutti i giovani italiani un appello a prendere le armi contro il fascismo e contro l’oppressione nazista. Un gesto senza precedenti, che avrà un’enorme risonanza in tutte le Università dell’Italia occupata. Quel giorno Marchesi dirà:
L’Università è sicuramente la più alta palestra intellettuale della gioventù: dove sorgono lenti o impetuosi i problemi dello spirito, dove gli animi sono più intenti a conoscere o a riconoscere quelle che resteranno forse le verità fondamentali dell’esistenza individuale. E noi maestri abbiamo il dovere di rivelarci interi, senza clausure né reticenze, a questi giovani che a noi chiedono non solo quali siano i fini e i procedimenti delle particolari scienze, ma che cosa si agita in questo pure ampio e infinito e misterioso cammino della storia umana. E questo compito non è proprio soltanto delle scienze morali e storiche e letterarie ma si estende a tutti i rami dell’insegnamento superiore: e noi sappiamo quanto lume di dottrina, quali esempi di dignità, che nobile e vigoroso richiamo alla libertà dell’intelletto siano venuti in ogni tempo dagli istituti scientifici, donde la ricerca muove verso tutti gli spazi; dalle scuole di ingegneria, dove l’arte e la tecnica attendono insieme alla bellezza e alla utilità sociale; dalle aule e dai laboratori di medicina, dove l’uomo è continuamente conteso al segreto che lo circonda e lo insidia e al male che da ogni parte lo colpisce nella perpetuità delle generazioni. Non sarà frase ambiziosa dire che l’Università è l’alta inespugnabile rocca dove ogni nazione e ogni gente raduna le sue più splendide e feconde energie perché l’umanità abbia nel suo cammino un sostegno e una luce; essa è la rocca che domina o alimenta il mondo tutto del lavoro. Di là da quel mondo la voce della scienza si fa muta o si converte in maleficio. Oltre i confini in cui il popolo lavoratore compie il destino della sua giornaliera fatica, manca il nutrimento allo spirito dell’uomo, che è nullo se non si riduce in benefica offerta e in salutare ristoro all’indigenza e al patimento della vita. La via che va dalla scuola alla officina, dai laboratori scientifici alla zolla arata e seminata, è oggi certamente assai più larga e diritta che prima non fosse; per quella via giungono di continuo i sussidi della scienza indagatrice e creatrice alle mani dell’operaio e del contadino; ma quelle mani non si tendono ancora abbastanza né si stringono in quel vincolo solidale che nasce dal senso fraterno di una comune necessità. C’è ancora da costituire nel mondo la vera e grande e umana parentela che renderà più sicura quell’altra che si estende pei rami delle discendenze e delle affinità. La società moderna che apparisce così enormemente complicata rispetto all’antica è invece - non vi sembri eresia - è invece enormemente semplificata nella sua attività spirituale. Questo miracolo di chiarificazione e semplificazione ha operato un fattore di prodigioso potere: il lavoro. Il lavoro c’è sempre stato nel mondo, anzi la fatica imposta come una fatale dannazione. Ma oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su: e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare via le catene che avvincevano per secoli l’anima e l’intelligenza sua. Non solo una moltitudine di uomini, ma una moltitudine di coscienze è entrata nella storia a chiedere luce e vita e a dare luce e vita. Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia. Tutti si protendono verso questo lavoro per uscirne purificati. E a tutti verrà bene, allo Stato e all’individuo; allo Stato che potrà veramente costituire e rappresentare la unità politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all’individuo che potrà finalmente ritrovare in sé stesso l’unica fonte del proprio indistruttibile valore. Sotto il martellare di questo immane conflitto cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità: ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta. Signori, in queste ore di angoscia, tra le rovine di una guerra implacata, si riapre l’anno accademico della nostra Università. In nessuno di noi manchi, o giovani, lo spirito della salvazione, quando questo ci sia, tutto risorgerà quello che fu malamente distrutto, tutto si compirà, quello che fu giustamente sperato. Giovani, confidate nell’Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio: confidate nell’Italia che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell’Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti. In questo giorno 9 novembre dell’anno 1943 in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati, io dichiaro aperto l’anno 722° dell’Università padovana.
Fra i giovani che ascoltano Marchesi si riconosce un giovanissimo Bruno Trentin, che anni dopo così ricorderà l’accaduto:
Un episodio che mi ha molto colpito e mi ha segnato per un lungo periodo, come giovane francese arrivato in un paese per me ancora sconosciuto come l’Italia, è stato l’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Padova nel novembre del 1943; io ero già nella clandestinità con mio padre, quindi siamo arrivati all’Università mischiandoci fra gli studenti, ma evitando proprio di figurare in qualche modo, dato che l’ateneo era pieno di poliziotti e poi c’era un gruppo di fascisti molto bellicosi. Ricordo questa cerimonia abbastanza strana per uno come me perché sopravvivevano ancora dei riti nell’Università di Padova anche nel vestire degli uscieri, naturalmente dei docenti, del senato accademico, dei presidi e dei rettori, che davano veramente l’impressione di una storia di altri tempi. Poco prima che iniziasse la cerimonia questo drappello di fascisti, oramai della Repubblica di Salò, giovani universitari che avevano ricostituito un gruppo di avanguardisti, hanno occupato il palco e hanno cercato di arringare la folla degli studenti, praticamente con un appello ad arruolarsi nelle truppe della Repubblica sociale italiana; ci fu una reazione nella folla degli studenti che fischiarono questa intrusione dei fascisti in una cerimonia così austera e impegnativa. Cominciarono però le minacce da parte di questo gruppo di fascisti che si era messo davanti al palco con atteggiamenti molto aggressivi, gli stessi poliziotti in borghese che giravano fra gli studenti cominciarono ad intervenire per sedare un po’ questo tumulto, ed è in quel momento che, in modo molto teatrale, con un usciere con l’alabarda che si è presentato sul palco battendo tre colpi, è entrato il senato accademico dell’Università di Padova; e in mezzo ai docenti, ai presidi, si è avanzato un piccolo uomo col mantello di ermellino: era Concetto Marchesi, che si diresse direttamente verso il palco dove parlava il capo di questo manipolo di fascisti, lo prese per la collottola e lo buttò giù dal palco letteralmente di fronte allo stupore attonito degli altri fascisti e di fronte all’ammirazione e all’entusiasmo di questa folla di studenti che aspettavano un segno. Dopo pochi minuti Marchesi cominciò il suo discorso di inaugurazione dell’anno accademico e lo cominciò in nome del popolo lavoratore.