Il 21 dicembre del 1946 a Baucina (Palermo) Nicolò Azoti, segretario della locale Camera del lavoro, viene colpito a morte. A sparargli cinque colpi d’arma da fuoco mentre rincasa è un capomafia locale. Aveva 37 anni. Pagava con la vita l’aver sfidato i gabellotti che avevano cercato invano di corromperlo e che alla fine avevano deciso di toglierlo di mezzo.

Così Antonina, la figlia, racconterà anni dopo quei momenti:

Ci addormentammo, io nel lettone e lui (Pinuccio, l’altro figlio, ndr) nel suo lettino, quel lettino che con tanto amore papà aveva costruito per lui quando era nato. Dormivo e già sognavo, quando spari improvvisi mi fecero trasalire: mi ritrovai seduta in mezzo al letto nella stanza buia e, prima ancora che io potessi invocarla, grida strazianti mi ferirono le orecchie e... il cuore. Era lei, la mamma, che aveva riconosciuto nei lamenti provenienti dalla strada, la voce di papà e gli chiedeva: “Cola, Cola, chi ti ficiru?” “Mimì, mi spararu!”

Un omicidio che non otterrà mai giustizia

La testimonianza della moglie, alla quale Nicolò prima di morire aveva raccontato chi fosse stato a volerlo morto e perché, non servirà a catturare i colpevoli e persino al funerale il parroco, per paura, eviterà di far entrare la bara in chiesa. Pinuccio ha sei anni quando perde il suo papà, Antonina quattro.

Nel trigesimo della morte di Giovanni Falcone quella bambina ormai diventata adulta salirà sul palco rivendicando, ad alta voce, l’orgoglio di essere figlia di un uomo che della lotta alla mafia aveva fatto la sua ragione di vita e, purtroppo, di morte.

A 18 anni ho cominciato a capire di chi ero figlia - dirà - quando ho letto il libro di Michele Pantaleone Mafia e politica. Lì c’è l’elenco dei sindacalisti uccisi, ho trovato il nome di mio padre. ‘Ecco chi sono. Questo è mio padre’, mi sono detta. Quella era la prova che non era colpevole, che aveva avuto degli ideali ed era morto per difenderli. Per la prima volta entravo in contatto con una storia alternativa, quella dell’antimafia”.

Il sindacato in lotta contro la mafia

Una storia, quella dell’antimafia, alla quale il sindacato, la Cgil ha contribuito pagando negli anni un prezzo altissimo: nel secondo dopoguerra siciliano, fra il 1944 e il 1948, i sindacalisti e i politici socialisti o comunisti che cadono sotto i colpi della criminalità organizzata sono più di 40.

Scriveva qualche anno fa Carlo Ghezzi:

Per la Cgil e per le forze di progresso, la lotta alle mafie, alle violenze, a ogni forma di illegalità antica o nuova hanno sempre rappresentato una delle grandi priorità, quasi una precondizione per poter puntare ad avere un ruolo e a svolgere una funzione per uno sviluppo diverso del Paese. Un impegno per il quale sono stati pagati pesanti tributi, che però hanno saputo conferire grande spessore e grande concretezza alla capacità del sindacato di guidare anche nei momenti più difficili, contro la mafia e contro le diverse forme di criminalità organizzata, le forze migliori del Mezzogiorno e dell’Italia. 

Quale era il nostro convincimento? - afferma Emanuele Macaluso in una bellissima intervista - Che era un prezzo da pagare”.

Cosa fa un sindacalista?, ci sentiamo spesso chiedere. Un sindacalista fa il suo lavoro, anche quando non è facile. Un sindacalista ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, e quando può, interviene. Un sindacalista combatte e lotta, anche a costo - e le tante biografie che continuiamo a raccontare lo testimoniano - della vita.

Anche a costo, ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio, di enormi sacrifici: “Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere”.

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