Quando muoiono due ragazzi di 18 e 16 anni, così come sono morti Lorenzo e Giuseppe, la colpa è sempre e comunque di noi adulti; e la discussione che si è aperta in questi giorni sull’alternanza scuola-lavoro, sulla sua quota di responsabilità rispetto alle due tragedie, rende tutto più triste e ci inchioda ancora di più alle nostre responsabilità. Il solo poter ipotizzare che la fine dell’esistenza di Lorenzo e Giuseppe possa essere attribuita a questo tipo di provvedimento, contenuto nella famosa legge 107 (la cosiddetta “buona scuola”), decreta in maniera inequivocabile la pericolosa distorsione dello stesso.

Ora non si chiama più così, ora siamo di fronte all’ennesimo acronimo di cui a scuola sentivamo tanto il bisogno: è il Pcto, che indica i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, da un paio di anni un altro modo per nominare l’alternanza scuola-lavoro, un binomio al quale alcuni docenti e studenti del nostro istituto restano non affezionati, ma in qualche modo legati.

Sì, perché nella nostra scuola questo connubio, questa sorta di endiadi forzata, spesso è stata amaramente declinata in base al contesto in cui si opera, al territorio in cui si lavora, alla vita che si vive. Da noi, l’idea di alternanza scuola-lavoro quasi subito si è trasformata in una specie di aut-aut, nel senso che se i nostri studenti non si presentano a scuola la mattina, per più di qualche mattina, per mattine che possono diventare settimane, potrebbe significare che abbiano trovato altro da fare, un lavoro poco raccomandabile, risucchiati dai tentacoli e le sirene della strada, ingolositi dal facile guadagno, perduti all’interno di una spirale dalla quale tirarli fuori diviene ogni giorno che passa sempre più complicato, con il rischio concreto di non rivederli più in classe.

Qui entriamo in un altro terreno, solo all’apparenza lontano da quanto dibattuto in questo periodo: quello dell’abbandono scolastico. Tema al quale dovrebbe essere dedicata maggior attenzione e un maggior impegno, visti i dati risalenti al settembre 2021, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, che certificano un progressivo miglioramento nel corso dell’ultimo decennio (dal 17,5 al 13%), rimanendo però sempre maglia nera, o comunque piuttosto scura (ci fanno compagnia Malta, Spagna e Romania) rispetto al resto d’Europa, con punte inaccettabili in alcune regioni del Sud del Paese (Sicilia 19,4, Campania 17,3%), ben lontane dall’obiettivo continentale, fissato al 9%. Nella nostra scuola, i numeri raccontano che siamo fermi a dieci anni fa, se non peggio, come accade in altre periferie.

E allora a volte viene da pensare se non esistano altre priorità nella scuola italiana, per esempio quando i laboratori sono vuoti di alunni ma pieni di banchi a rotelle (ve li ricordate?), o quando la (non) manutenzione delle strutture non consente di svolgere la didattica al meglio, oppure quando dobbiamo prenotarci per l’utilizzo di una tra le poche Lim disponibili, o ancora quando il registro elettronico deve essere aggiornato da casa, perché in aula la connessione è lenta e ci mangia l’ora di lezione.

Poi se un pomeriggio, tornando a casa dopo una lunga giornata, incroci sulla strada lo studente che manca ormai da troppo tempo, saluta  in fretta perché va di corsa, e non sa dirti se e quando tornerà in classe, sembra evidente che invece di alternarli con il lavoro, in troppi casi strizzando l’occhio all’azienda di turno, nel nome di un fantomatico “progetto educativo”, bisognerebbe prima assicurarsi che la frequentino, la scuola, ogni giorno: per studiare e conoscere, oltre che accumulare crediti e acquisire competenze.