La storia dei fratelli Cervi è la storia di un'esemplare famiglia italiana. Il nonno si chiamava Agostino, e fu uno dei capi della rivolta contro la tassa sul macinato nel 1869. Suo figlio, Alcide, aderirà giovanissimo al Partito popolare prima, alla Resistenza poi. Partigiani saranno anche i 7 figli di Alcide: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. Il 26 luglio 1943, il giorno dopo le dimissioni di Benito Mussolini da capo del governo, la famiglia offrirà un pranzo a base di pasta a tutto il paese di Gattatico, per festeggiare. A raccontare quella prima pasta antifascista condita con burro e formaggio è lo stesso Alcide Cervi nel suo libro, pubblicato nel 1955 e tradotto in 9 paesi, I miei sette figli:

“Il 25 luglio - scrive papà Cervi - eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti”, scrive papà Cervi. È Aldo, il terzogenito, che gli fa la proposta. “Papà - gli dice - offriamo una pastasciutta a tutto il paese”. Alcide accetta. “Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele e dicevo: - Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica”.

Di lì a cinque mesi i suoi 7 ragazzi avrebbero invece perso la vita fucilati dai fascisti, esposti alle rappresaglie delle camicie nere probabilmente anche per colpa di quella pastasciutta più potente di un manifesto politico. Verranno arrestati il 25 novembre e incarcerati nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Rimarranno prigionieri fino alla mattina del 28 dicembre, quando saranno fucilati per rappresaglia.

Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza. “Dopo che avevo saputo - dirà - mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l’ultimo addio”.

Venuto a sapere dell’eccidio, papà Cervi riuscirà a ritrovare le tombe dei sette ragazzi solo tempo dopo. Dirà il giorno dei funerali - che si svolgeranno il 25 ottobre del 1945, quasi due anni dopo la loro morte - “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti … I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.

“Alcide - scriveva Mirco Zanoni - aveva cessato di essere solo Alcide nel 1945, quando era arrivato papà Cervi. Forse nessuno gli ha mai chiesto che ne pensasse di questo cambio d’anagrafe pubblico. Ma lo viveva con la stessa dignità e la consapevolezza che gli consentiva di stare eretto davanti al dolore. La vita di papà Cervi era iniziata a 70 anni. Quando nell’ottobre del ‘45 la storia della sua famiglia varcò per sempre la soglia dei Campirossi per diventare patrimonio pubblico. Fu un altro funerale, a far nascere papà Cervi: la consegna delle spoglie dei suoi sette figli alla loro terra, a Campegine. Nel luogo dove sono ora, a fianco del padre, della madre, delle mogli.

Papà Cervi nasce vecchio, con il cappello e i baffi grigi, con le rughe di vita e di fatica che ne fanno un’icona perfetta per l’Italia che cerca specchi non infranti, tra le macerie della ricostruzione. I nuovi italiani cercano luoghi, bio- grafie, coscienze in cui trovare se stessi. Perché la politica non basta, e nemmeno l’ideologia e la fede. Serve l’anima, per ricostruire. Serve la verità della fatica e dell’umiltà, che solo dalla terra può venire. E la storia di Alcide, Genoveffa, dei suoi figli, delle loro donne e dei loro bambini, è una storia di terra, orizzontale come la pianura dove nasce e resiste, fino alla fine.  (…) Papà Cervi nei suoi 25 anni di vita è stato vestito di molte bandiere, alcune cucite apposta per lui. È stato avvolto di molto rosso, di molte parole. Ha portato tutto con la stessa dignità di ogni altra cosa. Come le sette medaglie sul petto dei suoi figli; come il “giubèt” con cui riceveva, a ogni ora, delegazioni ufficiali allo stesso modo delle persone qualsiasi che si fermavano a Casa Cervi”. Una quercia che ha cresciuto sette rami alla cui ombra, in fondo, ancora cerchiamo riparo un po’ tutti noi.