Interessante, a vent’anni di distanza, evocare la definizione del variegato popolo dei partecipanti al G8 di Genova. Nel 2001, molta informazione mainstream utilizza termini come “eco-teppisti” o “video-teppisti”: poche sottigliezze per un consesso di associazioni cattoliche e comunità laiche, gruppi ambientalisti e centri sociali, e poi preti, giornalisti, giovani studenti, tutti accomunati dal sensazionalismo mediatico nell’idea che atti vandalici o violenti sarebbero potuti accadere. Mentre delle istanze sociali, ecologiste, economiche sembra importare ben poco, la città si blinda e la tensione è palpabile. Fra i media istituzionali, Rainews 24 offre un modello alternativo di informazione: già da quattro mesi cerca di dare voce alle anime del movimento con una serie di incontri sul tema e panoramiche sui problemi della globalizzazione. Rai News 24 e La7 sono fra le pochissime televisioni che inviano giornalisti al controvertice. Per il resto il flusso delle immagini resta ipnotico, overdose di attenzione all’ordine pubblico, nell’idea della protesta indifferenziata. In compenso si parla molto del menù dei potenti e si ascoltano i mantra dei profeti del capitalismo globale.

Con le “mille camerine” Genova diviene il palcoscenico di un iperfilm collettivo: video occhi espansi, diffusi sul territorio, grazie ai quali centinaia di microstorie possono circolare, il grande fratello incrinarsi davanti alla moltiplicazione degli sguardi, la storia divenire un momento pubblico. Per documentare, almeno, le bugie dei vertici della Digos, il misero teatrino delle molotov abbandonate al Media center, le lacrime, il sangue e la democrazia abbandonate a loro stesse. In quella che, secondo Amnesty International, risulta "la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale", la televisione pubblica italiana perde una battaglia importante, arrivando a censurare un film sui fatti di Genova da lei stessa prodotto. Bella ciao (2001, Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero) subisce un curioso destino: creato per la messa in onda su Rai Tre viene bloccato dall'azienda e, nonostante sia selezionato al Festival di Cannes - nella Settimana della critica - gli autori sono costretti a difendersi innanzi a vertici della Rai.

Ma tanti sono i film realizzati: con dispositivi di ripresa e programmi di montaggio oramai a portata di tutti, ognuno scrive un pezzetto di storia e condivide un momento pubblico tramandabile ai posteri. Ma cosa si tramanda davvero? Quali spazi pubblici hanno consentito ai “documentari” su Genova 2001 di intercettare gli immaginari degli italiani comuni? Delle violenze compiute dentro la caserma di Bolzaneto, dei piercing strappati a forza, dei gas spruzzati in viso, dai polmoni sfondati, degli arti fratturati, delle umiliazioni delle donne e degli uomini innocenti abbiamo ben poche immagini. Ben 13 tipi di vessazioni violente sono risultate provate secondo la sentenza e le motivazioni, depositate il 27 novembre 2008. Oggi basta navigare nel web per affondare nel mare di soprusi di quelle giornate. Ma è come se tutto restasse a un certo livello, una serie di fatti brutali, ad altezza d’uomo, mentre le responsabilità a monte sono restate pressoché invisibili, progettate e comandate in stanze in cui il mediattivista non poteva, naturalmente, accedere.

Irrappresentabilità del potere, laddove la partita giocata sulle immagini realistiche è ben più complessa di quella relativa al cinema narrativo. Per questo Genova 2001 ci pone il problema del realismo delle immagini e di quanto sia difficile, in ultima analisi, fare cinema documentario. Perché non basta seguire un fatto, un avvenimento, una persona. Non è sufficiente girare decine di ore sulla superficie delle cose se non c’è un progetto filmico di penetrazione del “reale”, di “messa in crisi” dei suoi modi di apparire. Ecco i limiti del pedinamento di un mondo che “resiste”, di una “realtà” che resta opaca, scabrosa, refrattaria al racconto profondo.

Forse Genova ha fatto luce proprio su questo, cambiando definitivamente i modi di rappresentare i movimenti. Sino ad allora era normale riprendere il corteo dei manifestanti, dopo Genova ci si è resi conto che questo poteva non servire più a nulla. Che quella overdose di immagini su gente in marcia si era inabissata col Novecento e che non riusciva a spiegare la tragedia in atto, la durezza delle reazioni delle forze dell’ordine, le mistificazioni compiute proprio in nome della società dell’informazione. Restava testimonianza muta, nella quale la quantità di “reale” occultato era incredibilmente più vasta del tentativo collettivo di riprendere il visibile. E, alla fine, quella centinaia di ore di “veri” pestaggi, reiterati in decine di video digitali, rischiavano di comunicare a stento, di scalfire appena i grandi immaginari del pensiero unico televisivo. Senza istituzioni forti alle spalle, senza grancasse mediali, quel cinema di testimonianza e di informazione continuava a restare agli antipodi degli orizzonti mentali del telecittadino. Ma sarebbe stato possibile fare altrimenti? Dove avrebbero potuto, le decine di migliaia di partecipanti e le loro riprese trovare la forza per emergere e comunicare diversamente? E il web, quale potente forza mediale del Movimento, poteva garantire tutto ciò?

Al tempo stesso, quelle immagini sono servite. Alcuni fatti ricostruiti dal dibattimento oggi non sono più controversi. Sono documentati, provati, accertati, anche grazie all’integrazione di fonti e narrazioni diverse. Funzionari della Digos che sferrano calci in faccia a ragazzi già a terra, disarmati e circondati da agenti, vengono smascherati grazie alle riprese video; responsabili della polizia che, davanti alle violenze in atto nella scuola Diaz, negano stia accadendo qualcosa e vengono smentiti dalle immagini di Rainews 24; l’agente che si dirige verso la Diaz con le molotov da usare come false prove contro il Mediacenter viene individuato da un video della Bbc; alcuni poliziotti che accusano un gruppo di pacifisti spagnoli di essere stati aggrediti con spranghe di ferro vengono sbugiardati dai filmati trasmessi in corte d’assise… Lo “sporco”, effusivo, brulicante racconto delle mille telecamerine di Genova ci ha aiutato a capire che la democrazia, in Italia, resta un concetto precario e che un esaltato fascismo sotterraneo – ben udibile sin delle “nostalgiche” suonerie dei cellulari di alcuni poliziotti – continua a irrorare gli immaginari di parti delle forze dell’ordine. Impedendo la libertà di esprimere il proprio dissenso: ferite ancora aperte, come nel caso, recente, dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere.

E se il cinema non è riuscito a darci uno sguardo alto, capace di superare la violenza sulla pelle per arrivare a intaccare quella occulta, ancora più tragica, delle istituzioni e dei suoi regimi, Genova 2001 è stato comunque un momento di emersione di un nuovo tribalismo documentario. Il luogo dal quale il racconto non-fiction dell’Italia si è dotato di categorie capaci di lavorare in trasferta, come le vite e il lavoro di tanti di quei giovani che avevano vissuto quei fatti, nella speranza di un mondo migliore. Fuori dai circuiti televisivi mainstream, l’immenso tentativo è stato di condividere una esperienza politica e mediale, fra innesti autobiografici, quello del ”io c’ero”, e il vasto coro no-global che, grazie alle immagini delle “mille camerine”, illumina ancora i nostri sguardi sulle strade di un mondo migliore.

Marco Bertozzi è professore Ordinario di Cinema, fotografia e televisione all’Università  IUAV di Venezia