Appena iniziato l’autunno il nostro Paese si è trovato nuovamente in piena emergenza sanitaria. Abbiamo imparato che questo virus predilige gli organismi fragili e dobbiamo riconoscergli che, con estrema coerenza, si adopera per evidenziare contestualmente tutte le fragilità di sistema.

Da mesi ci viene ripetuto che con il virus dobbiamo convivere in attesa di interventi scientifici risolutivi; ma per poter convivere con il virus bisogna saperlo anticipare. Ed è esattamente questa la partita che non riusciamo a vincere.

Nel secolo in cui gli oggetti possono parlare tra loro, con milioni di smartphone in circolazione e app gratuite pronte a facilitare qualsiasi servizio, risulta ancora complicato avere dati certi sulla pandemia, sulla sua diffusione, sui dati storici e, soprattutto, su modelli predittivi.

La App Immuni, ormai scaricata da un discreto numero di italiani, ha aderito al framework di Apple-Google che consente la interoperabilità fra i dispositivi Android e iOS. I limiti della App e del sistema collaterale sono stati evidenziati da più parti: ma cosa si può fare fare per migliorare tutto il sistema?

Da un canto è evidente come la tecnologia non possa fare a meno del “ fattore umano”. La necessità di una rete territoriale di presa in carico dei malati, di assistenza a domicilio, di cura e di sostegno, è resa così evidente dall’emergenza sanitaria da obbligare ad un ripensamento totale del sistema sanitario. Un ritorno alle origini, con presidi territoriali di prevenzione e cura che oggi hanno un duplice ruolo:garantire la tutela e la cura dei cittadini riservando agli ospedali il ruolo di competenza e mostrare fattivamente la presenza dello Stato.

Se al cittadino si impongono misure di oggettiva limitazione della libertà in nome di un Interesse superiore, la salute, contestualmente vanno garantite la cura e l’assistenza di prossimità. Gli esiti del depauperamento continuo della medicina di territorio sono anch’essi evidenziati dalla diffusione del virus. Se tanto vale per l’emergenza, parimenti vale nell’ordinaria gestione di un servizio sanitario che deve essere improntato all’universalità dell’accesso alla prevenzione e alla cura.

Quello che appare certo nell’emergenza è che, se non si potenzia la App con flussi di informazione diversi, che attengono ad esempio la mobilità e la localizzazione dei contatti, nel rispetto dell’anonimizzazione dell’identità del singolo, non riusciremo mai ad avere mappe del rischio cui possano accedere amministratori ed autorità sanitarie per intervenire in modo preciso e risolutivo. È indispensabile una scrematura della tipologia di dati necessari a costruire un modello storico ed uno predittivo per poter davvero procedere con interventi mirati ed efficaci.

I dati che servono ci sono già; li posseggono i grandi monopoli digitali cui vanno richiesti con forza e senza indugio. Al cittadino, chiamato a responsabilità, bisogna dare informazioni chiare e trasparenti consentendogli di leggere quelle mappe del contagio che renderebbero chiare ed accettabili le misure di contenimento necessarie. A Google, Apple, Facebook, dobbiamo chiedere i dati necessari a costruire modelli e sistemi di prevenzione.

Tutto questo riguarda un modello di tracciamento indispensabile per poter giocare d’anticipo sulla diffusione pandemica, ma bisogna volgere a vantaggio una situazione così drammatica cogliendo l’occasione di affrontare i nodi gordiani del nostro tempo, sottesi a questo ragionamento, per non avere un mondo sempre più diseguale.

Che la ricchezza dell’oggi sia il possesso di dati è l’attualizzazione del vecchio detto: “sapere è potere”. I grandi big del tech raccolgono e processano dati in quantità inimmaginabile: sul loro possesso hanno costruito la loro ricchezza. I dati permettono di profilare, comprendere, predire ed orientare. Senza dati non c’è intelligenza artificiale e manca la benzina per le implementazioni di un sistema tecnologico affatto neutro.

Perché non utilizzare i dati per giocare d’anticipo su una virus che attacca organismi, uccide persone e paralizza economie? La risposta è semplice: i monopoli sono tali solo se possono godere del vantaggio competitivo dato dal possesso esclusivo del prodotto e non intendono minimamente cedere il vantaggio, se nessuno li obbliga. In questo senso la Commissione Ue sta per annunciare nuove regole che proveranno a costringere alla trasparenza i Big Tech rispetto alle pubblicità mirate e alle informazioni e ai prodotti che raccomandano. Un buon passo avanti, che si accompagna in Italia alla denuncia dell’Antitrust a Google per abuso di posizione dominante nel mercato pubblicitario on line, ma purtroppo non ancora sufficiente.

È inaccettabile che, ancora pochi giorni fa, Apple si sia rifiutata di consegnare al ministero della Salute i dati di chi attiva la App Immuni, come hanno denunciato Michele Mezza nella sua lettera aperta al ministro Speranza e il magazine Wired. Se questo accade in una pandemia mondiale come possiamo immaginare che l’atteggiamento dei monopoli digitali sia diverso in ambiti considerati “meno” rilevanti?”

Se vogliamo vivere questa fase storica immaginandola foriera di nuovi paradigmi non vi è occasione migliore per sovvertire le regole del nuovo capitalismo: come dice Shoshana Zuboff il capitalismo della sorveglianza vuole essere libero di attuare qualsiasi pratica senza vincoli posti da leggi e regole. Dunque si agisca velocemente per stabilire che le reti digitali sono una nuova categoria di opere di interesse pubblico ed i dati che vi transitano devono essere considerati alla stregua di beni comuni.

I dati sono di tutti; non vi sono aziende private che possano impedirne la trasmissione a enti pubblici che, nel rispetto delle norme sulla privacy, li utilizzino a fini di tutela della collettività. La sfida va lanciata ora riconducendola a un ragionamento che coinvolga l’intero continente. Un tassello della ricostruzione di un'Europa più vicina a Ventotene.