Il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. In un rapporto prefettizio si legge: "Tale notizia ha provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono scioperi ed azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che bisogna riunire tutte le forze della resi­stenza per tale occasione”. Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziano a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria fanno la voce grossa con il governo: quel congresso a Genova non si deve tenere, a qualunque costo. Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini, il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale.

“Gente del popolo - dirà il futuro presidente della Repubblica - partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere ‘no’ al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.

Io nego - e tutti voi legittimamente negate -  prosegue Pertini - la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l'attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato. Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza. Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà. Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza”.

Un lungo corteo si dipana per le vie cittadine. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti ragazzi dalle magliette a strisce) si riversano per le strade del capoluogo. Alla testa della manifestazione gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. La manifestazione procede in maniera tranquilla, ma davanti al tentativo da parte della polizia di sciogliere il corteo e alla minaccia della calata in massa dei fascisti verso Genova esplode la rabbia popolare. I vecchi partigiani, le giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari, trovatisi per la prima volta fianco a fianco in unità d’intenti, non solo non soccombono alla polizia, ma impediscono il Congresso missino, mandando in crisi il governo.

La giornata avrà classicamente, come conseguenza, l’inevitabile accanimento giu­diziario contro i manifestanti: gli arrestati saranno cinquanta con un'età media di ventotto anni. Saranno gli avvocati di Solidarietà democratica a difendere gli imputati, assumendo anche l’onere del sostentamento delle loro famiglie. Racconta un partigiano: “Sì, ci assumemmo il fardello di queste famiglie, che io ricordo con partico­lare commozione, perché molti ormai non ci sono più. I parenti venivano da noi a chiedere “ma come è stato possibile, non hanno fatto nulla di male”, e noi non avevamo risposte. Però, e questo è un fatto unico nella storia, tutte le mattine con un carretto portavamo a questi detenuti nel carcere di Marassi quanto occorreva per vi­vere una giornata meno carceraria possibile. (…) Ricordo che a ognuna di queste famiglie ogni mese veniva corrisposto lo stipendio che il detenuto avrebbe percepito se fosse stato in libertà. Ricordo anche che avevamo un ca­lendario dove segnavamo l’indirizzo di queste persone nel giorno in cui l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto mettere i sigilli (siamo arrivati anche a questo), e allora noi versavamo ogni volta 5.000 lire chiedendo il rinvio del se­questro dell’appartamento. All’Anpi vennero anche addebitate le spese processuali, gli avvocati della difesa erano quasi tutti volontari e operavano gratuitamente, ma le spese del processo ammontavano ad una decina di mi­lioni, all’epoca una cifra enorme, che noi non avevamo proprio”. Il processo si celebrerà a Roma nel 1962 e si concluderà con la condanna di 41 dei 43 accusati a pene superiori a quattro anni.

Dirà nella sua arringa finale Umberto Terracini: “Io credo di poter dire, interpretando l’animo degli assenti, che in questi 43 tutti si riconoscono i 100.000 del 30 giugno. Professori, impiegati, studenti, professionisti, i quali rifiutano una distinzione, una divisione che è tutto artifi­cio, nutrita di vecchi pregiudizi, insidiosa e grave di danni per gli imputati e umiliante per coloro verso i quali si pensa esprima invece deferenza e conside­razione. Questi 43 rappresentano, così come sono e chi sono, la maturità politica di tutta la popolazione di Genova”. In piazza quel giorno c’era la Cgil, c’erano i portuali, i professori dell’università, gli studenti, i lavoratori dei trasporti e del commercio. C’erano i vecchi partigiani e tantissimi giovani, padri, madri, nonni e figli, una miscela inaspettata che fece ripensare ogni schema politico. “No pasaràn!”, ieri, oggi, sempre.