Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione “Tema” del n. 4/2018 della Rivista delle Politiche Sociali. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla pubblicazione

Le Relazioni del governo al Parlamento sulle tossicodipendenze furono introdotte nella legge Jervolino-Vassalli del 1990, frutto di uno specifico emendamento delle opposizioni. Poiché la legge segnava un giro di vite repressivo, con la punizione del semplice consumatore, le opposizioni chiesero uno strumento che permettesse di monitorare e di valutare gli effetti delle nuove norme penali e più in generale le politiche antidroga. Infatti, la norma di legge chiede al governo non solo di riferire sui dati, ma anche sulle “strategie e gli obiettivi raggiunti” (articolo 131 della legge 309/90). Dunque, la raccolta di informazioni assolve a una precisa finalità politica, testimoniata peraltro dal fatto che l’interlocutore primo è il Parlamento.

Nei quasi trent’anni trascorsi dalla sua introduzione, la Relazione al Parlamento non è mai stata all’altezza dei compiti di legge, neppure da un punto di vista tecnico, poiché si è spesso tradotta in una raccolta pressoché informe di dati provenienti dai vari ministeri e amministrazioni, senza una chiara griglia di indicatori utili a leggere i fenomeni e la loro evoluzione nel tempo. A monte, le difficoltà risiedono nel contrasto fra il carattere squisitamente pragmatico della valutazione di efficacia e l’approccio ideologico della politica antidroga, così come è disegnato dalle convenzioni internazionali delle Nazioni Unite.

L’attuale contrasto alla droga ruota intorno agli obiettivi proibizionisti della “eliminazione dell’offerta di droga”, ossia della eliminazione/riduzione dei mercati, da conseguirsi con l’armamentario penale; e della “eliminazione della domanda di droga” (il famoso “consumo zero”), attivando di regola interventi socio-sanitari indirizzati all’astinenza. Il carattere ideologico delle politiche proibizioniste sta nel fatto che nessuna alternativa agli obiettivi sopra indicati è tollerata: perciò non sono valutabili nel loro esito.

Ciò è evidente nelle politiche globali: l’Assemblea generale speciale sulle droghe del 1998 stabilì come obiettivo l’eliminazione o riduzione significativa delle più comuni sostanze proibite (eroina, cocaina, cannabis) entro il 2009. A quella data, l’organismo di governo delle politiche internazionali, la Commission on narcotic drugs-Cnd, riunitasi ufficialmente per valutare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti nel 1998, rilasciò una dichiarazione finale in cui detti obiettivi erano semplicemente ribaditi per altri dieci anni, senza minimamente prendere atto del loro evidente fallimento. In questo quadro, la valutazione consiste solo nel prendere atto degli sforzi fatti per raggiungere gli obiettivi fissati, che rimangono ideologicamente scolpiti nella pietra. Il prossimo appuntamento internazionale, la Cnd 2019, ha di fronte lo stesso compito del 2009 e del 1998.

La Relazione al Parlamento 2018, pur migliorata sotto l’aspetto tecnico e la fruibilità dei contenuti, testimonia il progressivo decadimento dell’impegno politico sulla politica delle droghe. Dopo la stagione dello zar antidroga Carlo Giovanardi e la direzione del Dipartimento antidroga di Giovanni Serpelloni, che hanno cercato di piegare la relazione a finalità strumentali, il Dipartimento stesso è rimasto affidato a figure tecniche, senza un referente politico nel governo e senza più il supporto di organismi di rapporto con la comunità scientifica e con la società civile.

Per questo anche la Relazione 2019 si presenta povera, sia nell’analisi delle tendenze, sia soprattutto nelle linee di indirizzo: le indicazioni del referente politico da poco in carica, il ministro Lorenzo Fontana, sono avulse dal dibattito sulle politiche delle droghe, sia interno che internazionale. A parte la consueta debolezza nel monitoraggio delle politiche penali (che pure sono tuttora il “pilastro” principale del contrasto antidroga), sul piano delle strategie socio-sanitarie la Relazione non riesce a offrire neppure un quadro credibile dell’attuale rete dei servizi e del suo funzionamento.

La lettura della rete si basa ancora sul vecchio binomio SerD-comunità terapeutiche, secondo un modello trattamentale dell’uso di droga e della dipendenza come “malattia”. Anche la riduzione del danno, la strategia più in grado di rispondere alle odierne tendenze, è sottovalutata, in quanto integrata in questa rappresentazione, ignorando il dibattito intorno ai nuovi modelli di consumo e all’opportunità di potenziarla per superare l’offerta unica drug free. E persino la novità del sistema di allerta rapido per le nuove sostanze psicoattive-Nps sembra funzionare più come supporto al contrasto repressivo che come strumento di informazione tempestiva ai consumatori e di tutela della salute.

Alle carenze delle Relazioni ufficiali supplisce fortunatamente la società civile: da oltre dieci anni, i Libri bianchi sulle droghe – promossi da un gruppo di Ong e nati con l’intento di valutare l’impatto penale delle norme repressive introdotte nel 2006 dalla legge Fini-Giovanardi – costituiscono dei veri e propri rapporti ombra, offrendo linee per l’innovazione. Così il nono Libro bianco affronta anche l’analisi dei modelli operativi dei servizi, poco adatti a rispondere alla moderna visione dei consumi in un continuum di differenti livelli di rischio e di danno, oltre la vecchia dicotomia uso ricreazionale/dipendenza.

Strettamente legata all’innovazione dei servizi è un’altra priorità: la ricerca. Il rapporto poco virtuoso fra ricerca scientifica e droghe è un nodo storico, poiché gli studi sulle droghe sono sempre stati orientati e limitati dallo status di illegalità delle droghe e dai paradigmi dominanti. A ciò si deve la preponderanza della ricerca farmacologica e, più di recente, della brain research. Anche se nessuna delle due aiuta a capire l’esperienza del consumo e il perché dei differenti modelli di consumo e della loro oscillazione nel tempo. Eppure è proprio di questo che vi è necessità.

Grazia Zuffa, psicologa, svolge formazione e ricerca nel campo delle droghe e del carcere.