A Kenosha, in Wisconsin, c’è un uomo che non si rialzerà dal letto. La polizia gli ha sparato alle spalle. Sette colpi. Ha rischiato di morire. Si è salvato ma non camminerà più. Eppure a quel letto lo tengono inchiodate le manette. E a molti sembrano antiche catene. Lui si chiama Jacob Blake e, dopo averlo ridotto alla paralisi, lo hanno legato a un letto d’ospedale – denunciano i suoi familiari alla Cnn. Jacob è l’ultimo nero americano a finire sotto i colpi di un poliziotto bianco. Accade nei giorni caldi delle convention presidenziali. A cavallo tra i dibattiti democratici e quelli repubblicani. Ma tra tutti i discorsi e sopra le voci che si alzano, oltre le piazze che si infiammano, aldilà dei suprematisti bianchi che imbracciano i fucili, ci sono parole che risuonano nel tempo.

Sono quelle di Letetra Wideman, la sorella del ragazzo ferito: “Sono la custode di mio fratello – ha dichiarato in una conferenza stampa - e vi dico: quando pronunciate il nome di Jacob Blake, assicuratevi di dire anche ‘padre’, ‘cugino’, ‘figlio’, ‘zio’ ma soprattutto – cosa ancora più importante -  assicuratevi di dire ‘essere umano’.  Siamo esseri umani, la sua vita conta. Tante persone mi hanno contattato per dirmi che erano dispiaciute per quanto è accaduto alla mia famiglia. Beh, non siate dispiaciuti perché questo accade alla mia famiglia ormai da tanto tempo, molto più di quanto io riesca a ricordare”.

E la memoria storica della Wideman affonda in uno dei casi che segnò il movimento per i diritti civili. Quello di Emmett Till, brutalmente torturato e assassinato nello Stato del Mississippi nel 1955. Per una coincidenza di date, era il 27 agosto quando dei bianchi lo rapirono, gli cavarono un occhio, gli spararono per gettarlo poi nel  fiume Tallahatchie usando come zavorra una macchina per la lavorazione del cotone. Aveva avuto il torto di aver rivolto la parola a una donna bianca. Aveva 14 anni.

Letetra continua a parlare: “È successo a Emmett Till, Emmett Till era la mia famiglia. Philando, Mike Brown, Sandra. È accaduto e continua ad accadere alla mia famiglia. E io ho versato lacrime per ognuna di queste persone. Non c’è nulla di nuovo. Non sono triste. E non mi dispiace. Sono arrabbiata e sono stanca. Non ho pianto perché ho smesso anni fa. Sono diventata insensibile. Ho assistito per anni alla polizia che uccideva persone come me. Ho un diploma in storia dei neri, quindi non solo ho assistito a questi fatti nei trent’anni in cui ho vissuto su questo pianeta ma li ho conosciuti anche prima che venissi al mondo. Non sono triste. Non voglio la vostra pietà. Voglio il cambiamento”.

Che poi in fondo era lo stesso cambiamento che sognava il reverendo Martin Luther King quando il 28 agosto del 1963 raccontava di avere un sogno per i suoi quattro figli: quello di vederli vivere un giorno “in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per l’essenza della loro persona”. Davanti alla folla che aveva appena marciato per i diritti civili King diceva però anche che: “Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste”. Otto anni prima era stato ucciso Emmett Till, 57 anni dopo siamo al capezzale di Jacob Blake.