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L’incubo americano sta per finire. E quando anche il foglietto del 19 gennaio verrà stracciato via dal calendario e, appallottolato, finirà nel cestino, si porterà dietro, lì dove è giusto che finiscano, tutte le nefandezze dell’era Trump, vacua come il suo ciuffo di capelli ossigenati, cattiva e ridicola come l’ultima recita di violenza a Capitol Hill nel giorno dell’Epifania. Domattina la sveglia suonerà come un canto di liberazione per tanti immigrati che di Trump sono stati, in questi anni, il bersaglio preferito.
Si è sentita così anche Paola, un’italiana di 36 anni che da 8 ha lasciato la sua Salerno per trasferirsi negli Usa. Da qualche anno vive con suo marito, italiano anche lui, a San Francisco, dove ha un posto di ricercatrice al dipartimento di medicina dell'Università. Mentre ci parla, al di là dello schermo, il suo sguardo profondo tradisce la stanchezza di un anno difficilissimo. Un anno esatto in cui non ha potuto far ritorno in Italia. Per lei, come per tanti altri milioni di connazionali in Usa e nel mondo, al lockdown domestico si è aggiunto quello degli affetti. Eppure, persino in questa America ringhiosa e malata, Paola è riuscita a ottenere, da poco, la green card, il mitico documento anticamera della cittadinanza, che pone fine a ogni patema e problema di visti. E da pochissimo, poi, le è stata somministrata la prima dose del vaccino.
È il sogno americano che si riprende la scena? “Non lo so. Quello che so è che si ritornerà a un periodo di costruzione, di rinascita e di grande speranza per ciò che sta già avvenendo. Se è vero che la crisi è sempre uno stato di grazia, questa volta ci ha portato il vaccino e un cambio forte di amministrazione politica. E forse proprio in questa crisi gli americani hanno trovato la forza e il coraggio di cambiare, di riprendere in mano la loro vita, la loro terra inquinata dall’ultimo presidente. E proprio per la violenza e la profondità della crisi che hanno vissuto sulla loro pelle, hanno scelto di lottare per la loro democrazia e per i diritti civili”.
Paola sa quel che dice. Lavora nella divisione che studia le malattie polmonari. Per lei il covid quest’anno è stato tutto. Paura, dolore, oggetto di studio. Viverlo in America non è stato semplice. Sospesa tra le notizie che filtravano dal dramma italiano, vissuto a distanza, e il laissez faire trumpiano che ha trasformato gli Usa, a tratti, in un paese a vocazione negazionista, con dei numeri che ancora oggi mettono paura. Non è un caso che il nuovo presidente, Joe Biden, abbia inserito in cima alle priorità della sua agenda l’impegno di procedere spedito con le vaccinazioni.
Cosa ti aspetti a partire da domani? “Mi aspetto sicuramente che il nuovo corso metta in campo una risposta seria contro l’emergenza sanitaria. Trump negli ultimi mesi aveva deciso di non occuparsene. Biden ha annunciato la costituzione di una commissione scientifica di altissimo livello che avrà il compito di coordinare iniziative che limitino il diffondersi della pandemia. L’emergenza sanitaria si combatte con la comunicazione scientifica. Finora ignorata dal governo”.
C’è stato un momento in cui hai pensato “le cose stanno cambiando”? “Sono fortunata a vivere in questa città. Qui la maggior parte delle persone lavora nelle aziende della Silicon Valley, lo smart working si è diffuso a macchia d’olio, limitando spostamenti e contatti. San Francisco ha dato una risposta sanitaria eccellente, è una città che la gestione delle epidemie ce l’ha nel dna se pensiamo a cosa successe ai tempi in cui si diffuse l’Hiv. Parlando della mia esperienza, io sono stata classificata quasi subito come essenziale dal mio capo. Da maggio ho ripreso il lavoro in presenza. Nonostante la massima attenzione e il rispetto di tutte le regole, ho vissuto momenti di preoccupazione. Nella quotidianità uso spesso il microscopio e mi sono trovata anche ad analizzare campioni di polmone umano. Insomma, non mi sono fatta mancare nulla, in quanto a rischi. Ma dopo Natale, mentre continuavo a recarmi al laboratorio, ho iniziato a notare che la solita fila di persone che richiedevano un test di positività veniva sempre più spesso sostituita da quella per la somministrazione del vaccino. Ecco. Lì ho iniziato a pensare che forse il quadro stava cambiando”.
Ancora 24 ore per entrare in una nuova era e chiuderne una catastrofica. Che ha alimentato l’odio diffuso in molti strati della società americana, rispondendo al precetto del “dacci oggi il nostro razzismo quotidiano”. All’inizio tutti quei bandi di Trump mirati a determinati paesi, una raffica di provvedimenti ad hoc per creare un clima sfavorevole agli immigrati. Poi il tentativo di rendere più complicate e lunghe le procedure per acquisire i visti, ottenere la green card o diventare cittadino americano. Quindi la costruzione del muro di separazione con il Messico. Infine l’omicidio di George Floyd, la brutalità della polizia, le proteste che hanno incendiato il paese.
Voi italiani d’America cosa vi state lasciando alle spalle con la fine della presidenza Trump? “Un’epoca di forti e imprevedibili cambiamenti sociali. Innescati dalle leggi contro l’immigrazione. Ci siamo sentiti bersaglio di Trump. Io mi sono sentita in discussione, ho avuto la percezione che la nostra libertà di rimanere, di scegliere gli Stati Uniti, non fosse più così scontata. Per altro questo attacco all’immigrazione si è inasprito ancora di più quando c’è stata la pandemia, con l’imposizione di restrizioni a tratti illogiche. Il risultato è stato impedire di fatto a tanti giovani ricercatori e dottorandi con il visto di continuare a dare il proprio contributo e di portare a termine la loro esperienza americana. L’uccisione di George Floyd ha di fatto cancellato un pezzo della storia di questa nazione. In quel caso l’amministrazione ha calpestato, in un colpo solo, i valori di tanta parte della società e i progressi fatti dalle amministrazioni precedenti. È stato il frutto avvelenato di una politica che ha inasprito il contesto, accentuando le diseguaglianze, alimentando un certo culto della violenza, del razzismo. E quello che ne è venuto è stata l’espressione più forte della sofferenza che questo paese stava affrontando. Ma una cosa ci tengo a dirla. Non tutta la polizia è marcia. Ho assistito anche a bellissimi gesti. Qui a San Francisco ho visto agenti inginocchiarsi durante le proteste, ho visto poliziotti che hanno cercato di calmare gli animi, difendere i più esposti, aiutare, quando ce n’era bisogno. Certo, anche su questo aspetto, mi auguro che l’amministrazione Biden stabilisca nuove regole per l’assunzione, maggiore educazione e maggiore controllo”.
Ma tu hai mai subito il razzismo? “No. Il colore della mia pelle mi aiuta a non essere discriminata, almeno fino a quando non apro bocca. A volte però mi sono sentita esclusa per il mio inglese, per non aver ricevuto offerte di lavoro in quanto straniera e non madrelingua, o in quanto donna”.
La speranza, lo capiamo da una leggera sfumatura che le ha colorato la voce, è che tutto questo appartenga al passato. Paola nel frattempo è uscita di casa per andare al lavoro. Anche a diecimila chilometri di distanza sentiamo in cuffia i rumori della città che si confondono con quel lieve accento salernitano che mette allegria. Non vediamo il Golden Gate, né il mare, ma un’immagine ci coglie di sorpresa e immortala questa vigilia di liberazione. Perché Paola, mentre parla con un po’ di affanno sta per arrivare in cima a una di quelle strade in salita che hanno reso celebre San Francisco. Ancora qualche metro e si tornerà in piano. Basta attendere fino a domani. Del resto, rubando l’ultima battuta dell’immortale blockbuster hollywoodiano, per Paola, per l'America e forse per il mondo, domani è un altro giorno.