La frontiera è un non-luogo dove il tempo si ferma e l’attesa è l’unica attività permessa. I movimenti e gli sguardi di chi attende la chiamata dell’agente di frontiera indicano se si tratta di camionista o di altra specie umana. Il camionista sa dove posare gli occhi, quale tono di voce usare, dove parcheggiare il suo corpo nell’attesa. Tutta l’altra specie umana è persa, gira e rigira, vuole sapere, fa domande, sbaglia tempi, luoghi e interlocutori. È il non-luogo.

Il nostro passaggio in frontiera a Zahony, Ungheria e Krop, Ucraina, per l’orologio è durato quattro ore e mezzo, per noi è come aver perso la conoscenza e aver fatto un lungo viaggio altrove, persi e ricondotti all’uscita, senza sapere e capire il perché. Alla fine eravamo fermi lì, all’ultimo posto di blocco senza più nessun ostacolo davanti, fermi ad attendere ancora e solo lo sguardo e la voce gentile dell’ultimo agente ucraino di frontiera che ci invitava a ripartire, che tutto era a posto e “grazie per l’aiuto che state dando al nostro Paese” ci ha fatto riprendere coscienza e siamo entrati in Ucraina.

Pochi metri e una lunga, interminabile fila di autocarri scorre alla nostra sinistra, nella corsia che va verso la frontiera, da dove veniamo noi. Cassoni, rimorchi, bilici pieni di grano, mais, soia che normalmente viaggerebbero via mare destinati ai mercati africano ed europeo, ma che a causa della guerra e nonostante l’accordo raggiunto con la mediazione di Onu e Turchia che permette la partenza di un numero limitato di navi cargo, si rende necessario ricorrere al trasporto su gomma. Questi camionisti con il loro carico impiegheranno tra i tre e i cinque giorni per passare i cinque chilometri che separano l’Ucraina dall’Unione Europea.

Il caso ha voluto che la consegna del furgone, un ottimo Fiat Ducato, al sindacato Fpu (Federazione di Sindacati Ucraini) avvenisse proprio il 24 agosto, festa nazionale per l’Indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica, con massima allerta in tutto il paese per il rischio di nuovi bombardamenti russi su Kyiv e altre città. Nella regione della Transcarpazia, dove si trova la città di Uzhorod, nostra destinazione, si sono registrati sei allarmi nell’arco della giornata e quando suonano le sirene, la vita si ferma anche se questa regione, lontana dal fronte e sul confine con l’Unione Europea, è considerata una zona sicura, zona cuscinetto, dove trovano rifugio gli sfollati interni, la logistica e altro.

Mentre consegniamo il nostro piccolo carico di aiuti umanitari e il furgone ai rappresentanti del sindacato ucraino arriva la notizia del missile russo che ha centrato un treno a Chaplyne, nella regione di Dnipropetrovsk, a circa trecento chilometri da dove siamo noi, causando la morte di una ventina di civili tra cui cinque bambini. La guerra è sporca e maledetta colpisce le vittime innocenti togliendo loro la vita in un attimo. Non c’è ragione o diritto che tenga, non è più possibile dare giustizia a una vita persa. E ancora non lo abbiamo capito che l’unica via di uscita è rendere impossibile la guerra, investendo sull’educazione, sulla democrazia, sui diritti umani e non sulle armi e sulla deterrenza nucleare.

È possibile parlare di pace, di convivenza, di diritti, di negoziato mentre l’esercito russo bombarda e distrugge le città, occupa parte dell’Ucraina, ammazza i civili inermi e violenta le donne? Sì, non è solo possibile, è indispensabile farlo per non essere trascinati dentro questa spirale di violenza e di odio che si porta dietro la guerra. Lo si può fare se anche la vittima aggredita, come è il caso dei nostri partner ucraini, i nostri colleghi del sindacato, riconoscono il nostro impegno, accettano la nostra solidarietà e non si sentono giudicati, ma al contrario, si sentono rispettati, e si aprono, sforzandosi, rispettando la nostra posizione anche se divergente dalla loro.

La nostra azione di solidarietà, attraverso la nostra campagna a favore del popolo ucraino, a cui hanno aderito tutte le strutture sindacali territoriali e di categoria della Cgil, come pure la nostra partecipazione e sostegno alla campagna #Stothewarnow, promossa da un ampissimo cartello di reti e associazioni della società civile italiana, agisce concretamente, fornendo sostegno materiale alla popolazione sfollata, a rifugiati e minori, orfani. Contestualmente, nel rapporto diretto, fisico, empatico crea fiducia, rispetto reciproco, presenza fisica, relazioni e condizioni fondamentali per discutere e confrontarsi di fronte al dramma della guerra, al che fare e come reagire alla violenza, alla chiamata alle armi, a come uscire da una situazione dove tutto sembra perduto e l’unica strada rimane quella militare che “dovrà portare alla vittoria finale” come unica soluzione.

Solidarietà, impegno, condivisione, confronto anche aspro, per costruire una relazione alle cui basi ci sia fiducia e reciproco rispetto. E la strada intrapresa con i nostri partner ucraini va in quella direzione. Noi non giudichiamo la loro scelta di difendersi con ogni mezzo per difendere la loro integrità territoriale e scacciare l’invasore russo. Come loro accettano la nostra posizione di non sostenere una politica di riarmo e di risposta alla guerra con la guerra, perché la strada e le decisioni debbono essere politiche nel solco del diritto internazionale e se la guerra avviene, occorre trovare le risposte e soluzioni partendo dalle responsabilità, dalle cause con gli strumenti della diplomazia, della politica, del diritto.

Una posizione che non ha nulla a che vedere con l’indifferenza o l’equidistanza tra chi viola il diritto internazionale, aggredisce e occupa un territorio di un’altra nazione e chi è aggredito e vittima. Ma è la posizione che dobbiamo riuscire ad affermare e a condividere per costruire un’Europa e un mondo in pace e di pace. Un impegno che è comune e che non può attendere. Perché la guerra non è figlia di nessuno, ma di scelte politiche sbagliate che hanno permesso il generarsi di sistemi non democratici, di poteri autocratici, di una iper-concentrazione di ricchezza, di un modello di sviluppo energivoro e distruttivo del pianeta, di lobby e potentati finanziari ed economici capaci d'imporre l’agenda e le decisioni agli Stati e governi sovrani. Questa guerra, come le altre guerre in corso sono il prodotto di un sistema globale non più in grado di garantire “pace, sicurezza, benessere” (le finalità che stanno alla base della costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite) all’umanità e al pianeta.

Non è un caso che a guerra in corso, il governo e il parlamento ucraino trovano le ragioni per riformare il codice del lavoro verso un modello ultraliberista, portando la settimana lavorativa fino a 60 ore, sospendendo contratti collettivi e salari minimi per consentire liberi accordi individuali, comunicando ai sindacati queste decisioni, forti del fatto che, con la legge marziale in vigore e la guerra in corso, la reazione non potrà andare oltre a qualche dichiarazione. La direzione di marcia è chiara, dimostrare all’Unione Europa che l’Ucraina sarà un partner moderno, disancorato dai legacci del passato, senza più corpi intermedi e rappresentanze sociali se non per erogare qualche servizio e un poco di sussidiarietà.

E qui abbiamo un terreno di lavoro comune che va avviato quanto prima possibile, incontrandoci, parlando, sapendo che in questa fase dobbiamo saper convivere con contraddizioni e diversità anche profonde, ma che forti della fiducia e del rispetto reciproco, di valori e principi universali come sono le libertà, la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, la nonviolenza, dobbiamo saper costruire l’alternativa alle guerre, come allo sfruttamento selvaggio del lavoro, alla distruzione del pianeta, alle nuove forme di fascismo, perché solo così si possono allargare e consolidare i diritti, la democrazia e costruire la pace.

Sergio Bassoli, Area Politiche europee e internazionali