C’è una guerra parallela che si sta combattendo: quella dell’informazione. In Russia le testate giornalistiche e radiofoniche indipendenti sono costantemente sottoposte a una censura che proibisce di utilizzare i termini “guerra”, “aggressione” o “invasione”, pena l’imposizione di gigantesche multe o addirittura la chiusura. Di fronte a questo dilemma, e già fatta oggetto di visita della polizia, si è trovata la Novaja Gazeta, il giornale fondato nel 1993 da un gruppo di giornalisti, tra i quali Dmitrij Muratov, che ne è oggi il direttore ed è stato insignito del Premio Nobel per la pace nel 2021 a ridosso del quindicesimo anniversario dell’assassinio della più nota giornalista di questa testata, Anna Politkovskaja, fiera critica di Putin e della guerra in Cecenia.  

La Politkovskaja non è stata la sola a pagare per un giornalismo investigativo che denuncia la corruzione – come nel caso dello scandalo dei Panama papers - e l’attacco ai diritti dei cittadini: altri cinque suoi colleghi sono stati eliminati, altri intimiditi, per esempio, per le inchieste sul famigerato gruppo mercenario “Wagner”, già attivo in Libia e in Medio Oriente e ora apparentemente presente anche in Ucraina.

Nonostante le intimidazioni, la Novaja Gazeta ha continuato a pubblicare opinioni e reportage sulla guerra, ma sulle modalità per farlo è apparsa sul numero del primo marzo una dichiarazione del consiglio di redazione, che ha deciso di sottoporre ai lettori e sostenitori due quesiti sulla scelta della linea redazionale. Hanno risposto in 4.460, votando per il 93,9% a favore della continuazione del lavoro alle condizioni dettate dalla censura di guerra e per il 6,1% a favore di una sospensione fino alla conclusione della cosiddetta “operazione speciale”. Ma ciò che è più interessante è la valanga di commenti e suggerimenti che ha inondato la redazione. Nessuno auspicava un allineamento del giornale alla volontà del Cremlino, al contrario: nel chiedere a gran voce di continuare a dare un’informazione “onesta”, c’era chi suggeriva di utilizzare una “lingua d’Esopo”, assicurando di saper leggere tra le righe (“siamo in Russia, no?“. “Ci ricordiamo dell’epoca sovietica, vi capiremo…”), chi proponeva di virgolettare i termini voluti dalla censura (il che è stato raccolto dalla redazione), chi lanciava appelli accorati (“Se chiudete, cosa leggeremo?” “Tanto vale emigrare”), chi consigliava di usare una terminologia ironica (“Ironizzate. Scrivete 'un amichevole incontro per il tè, 'nonguerra', “Consigliate al cosiddetto 'potere' di leggere Operazione speciale e pace di L.Tolstoj”).

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Sulla Novaja Gazeta del primo marzo si annuncia anche la chiusura del canale televisivo indipendente Doz’d (“Pioggia”), che trasmetteva anche in Ucraina, Israele, Moldavia e nelle Repubbliche baltiche. Il canale è stato inserito dal ministero di Giustizia in una lista dei “mezzi di informazione che assolvono la funzione di agenti stranieri”; la giornalista Ekaterina Kotrikadze e il redattore capo Tichon Dzjadko hanno ricevuto telefonate anonime e messaggi intimidatori.

Ma compaiono anche ai balconi striscioni con la scritta “no alla guerra”, lo slogan scandito anche dai giovani, e non, manifestanti di Mosca e Pietroburgo. La giornalista di Doz’d, Marfa Smirnova, ha raccontato quanto successo alla sorella diciottenne, cui è stata comminata una multa di 15.000 rubli per aver appeso al balcone lo striscione, poi rimosso dalle autorità locali. Stessa sorte di Doz’d  con la chiusura delle trasmissioni radio e il blocco del sito, ha avuto la stazione radio Echo Moskvy  (Eco di Mosca), che racconta di essere accusata, come il canale televisivo, di pubblicare “notizie false sulle azioni dei militari russi nel quadro dell’operazione speciale per la difesa delle Repubbliche Popolari del Donetsk (Dnr) e di Lugansk (Lnr)”. Echo Moskvy è una stazione radio indipendente. All’epoca di Chernobyl fu tra i primi a denunciare che stava accadendo qualcosa di molto grave; nel 2008 Putin ne redarguì aspramente, censurandolo, il suo redattore capo, editor-in-chief, Aleksej Venediktov, per la copertura che era stata data del conflitto russo-giorgiano per l’Osetija del Sud e l’Abkhasia, autoproclamatesi indipendenti sotto l’egida e con il sostegno militare della Russia.

Nel ricordare che “bisogna prendere con una certa dose di scetticismo qualunque comunicazione delle parti belligeranti sulle proprie o altrui perdite o sui successi e le sconfitte”, Echo Moskvy comunica online il 2 marzo che “Il Roskomnadzor  (Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa) ritiene non corrispondano alla realtà né l’informazione circa il bombardamento delle città ucraine e la morte di pacifici abitanti dell’Ucraina come risultato dell’azione dell’esercito russo, né i materiali nei quali l’operazione effettuata viene definita come un’aggressione, un’invasione oppure una dichiarazione di guerra”.