Accusato di aver tentato di rovesciare il regime al potere e per la sua tesi di master sull’omosessualità, una volta arrestato, il 7 febbraio 2020, Patrick Zaki sarà torturato per 17 ore consecutive con colpi allo stomaco, alla schiena e con scariche elettriche inflitte dalle forze di sicurezza egiziane, oltre a essere interrogato a riguardo della sua permanenza in Italia e al suo presunto legame con la famiglia di Giulio Regeni.

Dopo una breve detenzione presso Talkha, il 25 febbraio sarà trasferito nel carcere di Mansura prima di Tora poi. La sua detenzione preventiva, arbitraria, illegale, immotivata e crudele, sarà più volte prolungata per periodi successivi di 45 giorni.

“Auspichiamo - dicevano poco dopo l’arresto dello studente mamma e papà Regeni - che ci sia per Zaki una reale, efficace e costante mobilitazione affinché questo giovane possa essere liberato senza indugi. Chiediamo alle istituzioni italiane ed europee di porre immediatamente in essere tutte quelle azioni concrete che non sono mai state esercitate per salvare la vita di Giulio o per pretendere verità sul suo omicidio. Siamo empaticamente vicini ai familiari e agli amici di Patrick dei quali comprendiamo l’angoscia e il dolore. Noi sappiamo di cosa è capace la paranoica ferocia egiziana: sparizioni forzate, arresti arbitrari, torture, confessioni inverosimili estorte con la violenza, depistaggi, minacce. Patrick, come Giulio, merita onestà e determinazione, non chiacchiere imbarazzanti e oltraggiose”.

“Sono esausto fisicamente e mentalmente - raccontava il ragazzo alla madre, andata a fargli visita nel carcere di Tora - non posso continuare a stare qui ancora a lungo e mi deprimo ogni volta che c’è un momento importante nell’anno accademico, mentre io sono qui invece di essere con i miei amici a Bologna”.

“Durante la visita - riferiva la famiglia - lui non era in sé del tutto, ma diverso da ogni altra volta e ci ha letteralmente spezzato il cuore. Le sue parole ci hanno lasciato in lacrime, incapaci di aiutare nostro figlio in questa straziante situazione. Inoltre siamo rimasti scioccati dal vedere che era depresso al punto che ha detto che raramente esce dalla sua cella, perché non riesce a capire perché si trova lì e non vuole affrontare il fatto di dover uscire per camminare per pochi metri fuori solo per essere rinchiuso di nuovo in una cella di pochi metri. (…) Nostro figlio è una persona innocente e un brillante ricercatore, dovrebbe essere valorizzato, non rinchiuso in una cella. Dieci mesi fa, Patrick stava lavorando al suo master e pensava di terminarlo per poi proseguire con il dottorato di ricerca. Ora come ora, il suo futuro è completamente incerto; non sappiamo quando sarà in grado di continuare gli studi, di lavorare e persino di tornare alla sua vita sociale, un tempo ricca. Chiediamo a ogni persona responsabile e a chi prende le decisioni di rilasciare immediatamente Patrick. Restituiteci nostro figlio e restituiteci tutte le nostre vite”.

Dopo 22 mesi di prigionia Patrick sarà finalmente liberato, ma non assolto, solo nel dicembre dello scorso anno. Ad attenderlo la madre e la sorella. “Tutto bene”, sono state le sue prime parole in italiano. “Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi e quell’abbraccio arriva dall’Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l’università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell’abbraccio arrivasse”, commentava Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

Un lieto fine, però, solo a metà che speriamo si concretizzi pienamente e definitivamente il prossimo 6 aprile con la sua completa assoluzione.