“Era piccola di statura e aveva una testa sproporzionatamente grande; un tipico volto ebreo con un grosso naso (…) aveva una camminata pesante, a volte irregolare, e zoppicava; a prima vista non suscitava un’impressione favorevole, ma bastava passare un po’ di tempo con lei per accorgersi della straordinaria vitalità ed energia di quella donna, della sua intelligenza e vivacità, dell’elevatissimo livello intellettuale in cui si muoveva”, così John Mill descrive Rosa Luxemburg.

Vitale e intelligente (si laureerà in Giurisprudenza nel 1897 insegnando economia politica dal 1907 al 1914), piccolissima, Rosa impara a leggere e scrivere - da autodidatta - in polacco, tedesco e russo, la lingua ufficiale dell’impero del quale la Polonia faceva parte. Ancora prima di compiere vent’anni sente il bisogno di interessarsi in prima persona ai problemi del mondo e nei due anni successivi studia - in una Polonia infiammata da scioperi e manifestazioni -  le opere di Marx ed Engels. Profondamente pacifista, poco dopo lo scoppio della prima guerra mondiale abbandona la carriera di insegnante e si dedica alla militanza politica.

Nel 1916, ancora in pieno conflitto, esce dalla Spd e fonda, con il suo migliore amico Karl Liebknecht, dapprima la “Lega di Spartaco” e in seguito il primo partito comunista tedesco. Questi due movimenti politici tentano, nel gennaio 1919, un’insurrezione armata, che però viene soffocata nel sangue dall’esercito: Rosa e Karl vengono fucilati a Berlino il 15 gennaio dello stesso anno. “Ora è sparita anche la Rosa rossa - scriverà Bertolt Brecht - Dov’è sepolta non si sa. Siccome disse ai poveri la verità i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà”.

“Anche a Rosa Luxemburg - scriveva qualche mese fa Maria Rosa Cutrufelli su Il Manifesto - toccò combattere per sfuggire alla condanna di quel 'comando' che vuole addomesticare il pensiero femminile subordinandolo all’autorità patriarcale. Una battaglia che affrontò con determinazione e consapevolezza e di cui troviamo tracce eloquenti nelle molte lettere indirizzate all’amato Leo Jogiches: 'Tu non ti accorgi affatto che tutta la tua corrispondenza ha un carattere disgustoso: il tono generale è quello di una predica noiosa e pedante, come le lettere del maestro a un caro alunno… Questa è la conseguenza di un tuo vecchio vizio che ha rovinato completamente la nostra convivenza, cioè il tuo vizio di far da mentore, per cui ti senti continuamente chiamato a insegnarmi e a fare sempre e in tutto la parte del mio maestro… Di fronte a questo, non posso che limitarmi a scrollare le spalle'”.

Una donna “troppo donna e non abbastanza compagna di partito”, secondo Bebel. Una donna esperta di geologia, botanica e zoologia che scriveva: “Quando si ha la cattiva abitudine di cercare una gocciolina di veleno in ogni fiore schiuso, si trova, fino alla morte, qualche motivo per lamentarsi. Guarda, quindi, le cose da un angolo diverso e cerca il miele in ogni fiore: troverai sempre qualche motivo di sereno buonumore. (…) Tutte le mattine ispeziono scrupolosamente le gemme di ogni mio arbusto e verifico dove ce ne sono; ogni giorno faccio visita a una coccinella rossa con due puntini neri sul dorso che da una settimana mantengo in vita su un ramo in un batuffolo di calda ovatta nonostante il vento e il freddo; osservo le nuvole, sempre più belle e senza sosta diverse e in fondo io non mi considero più importante di quella piccola coccinella e, piena del senso della mia infima piccolezza, mi sento ineffabilmente felice”.

Non si trattava di una femminea debolezza, non era un sentimentalismo femminile poco adatto alla rivoluzione. Era ed è l’etica della cura di cui tanto stiamo parlando in questo inimmaginabile periodo. “Nella cura per i fiori e gli insetti - scrive Bruna Bianchi - nella compassione per l’animale maltrattato, nella gioia per il canto degli uccelli, nello stupore con cui osservava le nuvole o il moscerino e la coccinella non c’è sentimentalismo femminile, ma un modo di sentire il mondo come luogo di convivenza e di condivisione, che è un tutt’uno con il desiderio di conoscerlo con empatia e rispetto e con la volontà di cambiarlo, per eliminare ogni forma di dominio”. Il dominio del ricco sul povero, di una "razza" sull’altra, dell’uomo sulla donna.

“Un forte messaggio di emancipazione - scrive ancora la Bianchi - ci viene dalla sua stessa vita, una donna che cercò di opporsi a un sistema sociale costruito e guidato dagli uomini, che non permise mai al sessismo e all’antisemitismo di condizionare il suo agire, determinata a rompere le barriere di genere, ad affermare il diritto di essere ascoltata, il diritto alla propria indipendenza, che riuscì a far sentire la propria voce e a dimostrare che le sue idee erano importanti e meritavano attenzione. Una disposizione d’animo che si riflette nel suo autoritratto del 1911: una donna volitiva, fiera, che sapeva 'guardare nel profondo di se stessa' e che da quella prospettiva guardava il mondo”.

“Rosa, che quando arrivò in Germania era tutto ciò che il potere tedesco detestava: donna, polacca, ebrea, comunista - scriveva lo scorso anno per Buona Memoria Gabriele Polo - (…) Rosa che in carcere preferiva “il canto delle cinciallegre alle elucubrazioni dei dirigenti di partito”. (…) Rosa che attaccava Bernstein perché rinunciava alla rivoluzione e Lenin perché rinunciava alla democrazia, ché se le due cose non stavano insieme sarebbe stata barbarie (…) Rosa e Karl per cui era “meglio sbagliare insieme alle masse che avere ragione lontani da esse”. E per questo parteciparono a una rivolta che sapevano non essere rivoluzione e furono uccisi dai fascisti armati dal governo dei loro ex compagni. Rosa e Karl, la cui tomba fu a lungo l’unico luogo di Berlino che sentivamo nostro”.