In queste settimane per affrontare una pandemia imprevedibile fino a pochi giorni – e che solo a pensarla ci sarebbe sembrata lo scenario di una distopia fantascientifica più che una situazione davvero possibile – le società occidentali si sono autoimposte restrizioni molto dolorose alle proprie libertà. Lo hanno fatto forzando, temporaneamente ma dolorosamente, princìpi che sono alla base del vivere civile delle proprie comunità democratiche.

Ebbene, ci sono realtà dove, a fronte di un’emergenza come quella del coronavirus, questa strategia è, materialmente, impossibile. Stiamo parlando di 70 milioni di persone (12 milioni delle quali bambini) che sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni e si trovano oggi ammassate nei campi allestiti per i rifugiati, in condizioni di sovraffollamento e con un accesso minimo o del tutto assente all’assistenza sanitaria.

Uno scenario preoccupante, potenzialmente tragico, che in questi giorni sta denunciando con forza Save the Children: “Le restrizioni applicabili in Europa e Cina – ci dice Filippo Ungaro, portavoce di Save the Children Italia – in queste situazioni sono impensabili. Nei campi si vive in capanne di legno o di bambù, in tendoni sovraffollati, dove si sta spesso in tanti a dormire. Il resto della giornata lo si passa fuori. Come si potrebbero organizzare in queste situazioni misure di autoisolamento”?

Uno dei casi maggiormente sotto osservazione si trova in Bangladesh. Il campo di Cox’Bar – che ospita i Rohingya  in fuga dal Myanmar – ospita un milione di persone, la metà bambini, ed è diventato ormai il più grande concentramento di rifugiati nel mondo. Per ora non si sono registrati casi di Covid-19, ma se dovesse accadere sarebbe una tragedia: “Al momento non esiste alcun sistema di screening o test per il Covid-19 e non ci sono unità di terapia intensiva – aggiunge Ungaro –. Non solo: la situazione sanitaria precaria rende le persone più vulnerabili e i sistemi immunitari sicuramente debilitati e dunque più facilmente attaccabili dal virus. Sono stato lì lo scorso anno, e in condizioni ‘normali’ la situazione era pesantissima: sovraffollamento, code lunghissime per tutto. Se il virus arrivasse qui, sarebbe un vero disastro”.

Come si vive nel campo di Cox's Bar in Bangladesh

 

 A oggi, dice Shamim Jahan, vice direttore di Save the Children in Bangladesh, “nel nostro centro sanitario principale in uno dei campi, che offre normalmente cure per i bambini affetti da polmonite e assistenza per le donne partorienti, abbiamo riservato un’unità protetta a parte con 15 letti, nel caso in cui fosse necessario l’isolamento. Se Covid-19 si dovesse diffondere ampiamente, saremmo comunque in grado di continuare a curare i pazienti nella restante parte del centro ma rischieremmo di essere sopraffatti dall’emergenza”. È evidente che un’unità con 15 posti – su una popolazione di un milione di persone – servirebbe davvero a poco. 

Ma la situazione è a rischio in tutte le aree più compromesse del Pianeta. Se ci sposta nell’Africa Sub-Sahariana, che ospita più di un quarto dei rifugiati nel mondo, la situazione non migliora affatto: questa regione ha la più bassa percentuale in assoluto di medici per persona (0,2 ogni 1.000 persone) e qui, purtroppo, i casi di Covid-19 si stanno moltiplicando rapidamente nella maggior parte dei paesi dell’area, con enormi rischi per i rifugiati e la popolazione locale. Mentre nell’Asia Orientale e Pacifico, dove si registra la maggior parte dei casi confermati di Covid-19, ci sono 1,6 medici ogni 1.000 persone.

La vita nel campo di Idlib, Siria

 

È evidente che in situazioni di emergenza come questa, e dove l’eventuale isolamento è molto difficile per le ragioni che abbiamo detto, l’unica strada, non facile, sottolinea Ungaro, “è che bisogna rafforzare il più possibile e al più presto i sistemi sanitari: lo diciamo da 100 anni, da quando esistiamo”. Conferma il direttore medico globale di Save the Children, Zaeem Haq: “Il Covid-19 rappresenta una crisi sanitaria mondiale che richiede una risposta coordinata a livello globale. È nel nostro interesse impegnarsi per fare ogni sforzo al fine di prevenire un’ulteriore diffusione del virus e ancora di più nei campi per rifugiati o sfollati dove l’isolamento o il test sono una vera sfida. I bambini sopportano già il peso di molte delle infezioni più diffuse come polmonite, malaria e colera, e le loro famiglie faticano altrettanto ad avere l’assistenza medica necessaria”.

L’emergenza colpisce, ovviamente in scala diversa, tutti paesi. L’Unesco calcola che in questo momento nel mondo ci sono 780 milioni di bambini che a causa del coronavirus non vanno a scuola: “Per molti di loro – riprende Ungaro – la scuola è l’unico posto dove, almeno una volta al giorno, possono avere un pasto buono. Vale anche per il nostro paese: in Italia ci sono 1.200.000 bambini che vivono in povertà assoluta e che in una situazione come questa rischiano di rimanere drammaticamente indietro. Un discorso simile si può estendere a tutti i paesi della Terra”.

Sono fronti, anche questi italiani, su cui Save the Children, è impegnata: “Forniamo tablet, computer e connessioni ai bambini più vulnerabili, aiutiamo le scuole meno attrezzate sulla didattica a distanza, anche con azioni di tutoraggio e formazione per insegnanti e realtà meno preparate, e lavoriamo anche sul sostegno alla genitorialità in un momento così difficile da gestire con i più piccoli”.

Insomma: nessuno deve restare indietro, nessuno va dimenticato. Purtroppo non sarà facile. La naturale concentrazione di tutti sulla pandemia distoglie attenzione e risorse già scarse su altre scenari drammatici: tra pochi giorni saranno cinque anni dall’inizio della tragica guerra in Yemen. Chi se lo ricorderà? E anche la situazione di Idlib sembra uscita dai radar della nostra informazione. Insomma: stiamo combattendo un virus che è letale in tanti e diversi sensi. Non solo quelli più immediati.