L’intervento di Daniele Archibugi, Laura Pennacchi ed Edoardo Reviglio espone un fronte di riflessione e proposta molto ampio, intorno al quale provo a sviluppare alcuni spunti, certo non esaustivi.

Primo. Progettare il futuro è occasione per mettere in agenda l’obiettivo di riequilibrare il rapporto tra la crescente densità urbana, in particolare delle aree metropolitane, e il progressivo, in molti casi desertificante, abbandono non solo demografico di migliaia di piccoli centri. Per molti aspetti e per molti anni il rafforzarsi delle “metropoli”, fissato anche dalla legge Delrio quale nuovo elemento costitutivo dell’architettura dei poteri locali, ha corrisposto all’esigenza del nostro Paese di dotarsi di ambiti territoriali nei quali concentrare una massa critica forte, qualificata e integrata nelle sue diverse componenti, in grado di competere con le omologhe realtà di altre nazioni europee.

Sull’altro versante, e per contrasto con le criticità epidemiologiche generate dagli assembramenti propri dell’ambiente urbano, si apre l’opportunità di progettare il recupero degli spazi vuoti o sottoutilizzati delle aree interne, colpite nei decenni da un progressivo declino demografico, dal quale non derivano solo l’incuria dell’ambiente e il dissesto idrogeologico del territorio, ma anche il depauperamento dei servizi e della socialità, che investe una parte significativa dell’Italia, producendo un’ulteriore forma di disuguaglianza.

Il secondo aspetto da evidenziare ha a che fare con la necessità di ripensare l’uso dello spazio e del tempo di lavoro, a muovere dall’esperienza dello smart working, che ha conosciuto in ragione del lockdown una forzata e concentrata espansione. Che può dare ora occasione per un progetto ambizioso di riequilibrio tra tempo di lavoro, tempo di vita e tempo di cura, agendo per di più su una molteplicità di fattori economici e sociali: rimodulare le compatibilità tra attività lavorativa e lavoro familiare; abbattere il tasso di pendolarismo legato alle attività e, di conseguenza, ridurre l’impatto delle emissioni da traffico, riducendo nel contempo i costi a carico dei lavoratori; ridimensionare i volumi complessivi degli spazi necessari per le attività in presenza, pubbliche e private, diminuendo le spese di gestione delle strutture e i consumi energetici; liberare immobili per tipologie di servizi oggi compresse in strutture sature o inadeguate.

Il terzo spunto riguarda la scuola: la grande, decisiva infrastruttura materiale e immateriale su cui si gioca il futuro dell’Italia. Proprio la scuola, insieme ovviamente alla sanità, può essere il primo fronte sul quale avviare un piano di investimenti per il futuro: anche riprendendo, sul fronte del finanziamento, alcune delle indicazioni di lavoro formulate da Romano Prodi un paio d’anni or sono, nel suo “Piano per l’infrastruttura sociale d’Europa”, rimaste inspiegabilmente poco valorizzate. Per quanto riguarda l’edilizia scolastica, un massiccio programma di investimenti darebbe l’occasione di recuperare una vasta parte di patrimonio pubblico altrimenti destinato a inutilizzo e degrado, fattori di ulteriore dequalificazione delle aree urbane.

Un piano che dovrebbe improntarsi ai più avanzati obiettivi di riqualificazione e risparmio energetici, finalizzato tanto a incrementare gli spazi permanendo le esigenze di maggiore distanziamento quanto, sul medio periodo, alla sostituzione degli edifici scolastici più obsolescenti. Sul fronte di sviluppo della didattica digitale, l’esperienza condotta nel lockdown ha evidenziato potenzialità e ritardi, legati al digital divide tra le diverse aree del Paese e alla disomogenea dotazione degli strumenti necessari da parte delle famiglie. Occorre prosciugare le disuguaglianze territoriali e sociali, mobilitando le risorse indispensabili a fare in modo che la scuola diventi realmente la comunità di base in cui si fonda l’uguaglianza delle opportunità. Dove trovare le risorse: risorse pubbliche, fondi d’investimento long term, la massa imponente di capitali “beni comuni” detenuti dalle Fondazioni di origine bancaria.

Il quarto e ultimo spunto richiama una riflessione di carattere più generale, che stava in campo già prima dell’emergenza, ma che ora può tagliare trasversalmente diversi ambiti di ragionamento e assumere il valore fondativo di un nuovo modello di relazioni. Mi riferisco al vasto campo delle comunità e dei beni comuni. Dalle politiche industriali e del lavoro al sistema dei servizi pubblici, il dopo Covid-19 si progetta solo rimodellando e riequilibrando profondamente il rapporto tra poteri pubblici e iniziativa privata.

Sarebbe un errore rinchiudere, in qualche modo, questa necessità nell’ambito della sola dialettica stato-mercato. C’è un fronte immenso di “beni comuni” da valorizzare: dai paesaggi alle risorse ambientali, dai beni storici e architettonici di pregio, ai patrimoni delle culture materiali. E anche sullo stesso versante finanziario: penso ai già richiamati capitali delle Fondazioni bancarie, ma anche alle quote di risparmio che possono essere orientate, attraverso adeguate garanzie, e investite su progetti in grado di costruire dal basso un modello di coesione comunitaria, fondato sulla cura e sulla promozione dei luoghi e delle persone, anziché sull’identità del rancore.

Daniele Borioli è stato senatore del Partito democratico.