Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche arrivano per prime presso la città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz), scoprendo il vicino campo di concentramento e liberandone i superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti riveleranno compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazifascista. Il 17 gennaio precedente nel campo di Auschwitz veniva fatto l’ultimo appello generale. 

Nei campi di concentramento

Risultano presenti 67012 detenute e detenuti: 31894 ad Auschwitz I e a Birkenau, 35118 nei sottocampi e a Monowitz. I nazisti sono pronti a lasciare il campo perché stanno per arrivare i sovietici. La mattina del 18 gennaio inizia la partenza di quelli che sono in grado di camminare, divisi in colonne di diversa entità (500, 1000, 1500 individui, a seconda dei casi). 

“Nei primi giorni del gennaio 1945 - ricorderà Primo Levi - sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di “recuperare”, a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi”.

Già nelle prime ore della marcia moltissimi sono i caduti, sepolti ai lati della strada in fosse comuni. Si calcola che solamente nell’area di Auschwitz nei primi giorni dell’evacuazione siano morti oltre 3.000 prigionieri. Alla fine, saranno tra i 7 e i 9mila i detenuti ad avere salva la vita. Nella maggior parte dei casi saranno proprio quelli rimasti nei campi fino all’ultimo, fino all’arrivo dei sovietici.

Tra questi, Primo Levi, che così descrive quei momenti:

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.

Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.

Le marce della morte

Le prime marce della morte partono all’indomani dell’ultimo appello generale, con i nazisti determinati a distruggere le prove dello sterminio. Mentre il campo di Auschwitz viene evacuato i tedeschi cominciano la distruzione delle prove della carneficina. Il 20 gennaio fanno saltare in aria i crematori II e III. Sei giorni dopo è la volta del crematorio V, fino ad allora in condizioni operative. Poi è la volta del complesso di magazzini noto col nome di "Kanada II", dove erano stoccati i beni requisiti ai prigionieri. Ma le proporzioni del crimine sono troppo consistenti per essere nascoste. Troppo consistenti per essere dimenticate. Troppo consistenti per non spingerci a riflettere. Anche oggi. Forse soprattutto oggi.

Scriveva ancora Primo Levi  ne I sommersi e i salvati

Può accadere e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; (...) è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, ‘utile’ o ‘inutile’, è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato (...) Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali.

Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono ‘belle parole’ non sostenute da buone ragioni (...) Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri ‘aguzzini’. Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.

Erano stati educati male. Per questo conoscere è importante. Perché “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare” e “le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”, anche oggi.