L’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 31071 del 2 novembre 2021 può essere letta come conferma di quello che molti giuristi già ipotizzavano: dopo la direttiva dell’Unione n. 2000/78 la parità di trattamento dei lavoratori non consente più a un ente religioso di discriminare la lavoratrice in ragione di uno dei fattori protetti. Tra questi vi è l’orientamento sessuale, ma anche la stessa religione e le convinzioni personali.

Una scuola cattolica convenzionata con il servizio pubblico provinciale del Trentino decide dopo diversi anni di non rinnovare il contratto annuale a una docente. Al centro di un colloquio estivo del 2014 sono poste voci in merito a una sua convivenza con un’altra donna, circostanza che è chiesto alla docente di smentire o comunque di affrontare in maniera “risolutiva”. A fronte della reazione della lavoratrice, la quale afferma che non compete al suo datore di lavoro indagare la sua vita privata, non segue alcun rinnovo del contratto.

Il Tribunale di Rovereto accoglie il ricorso della lavoratrice, così come della Cgil del Trentino e dell’Associazione radicale “Certi Diritti”. L’iniziativa delle due organizzazioni non rappresenta solo un atto di sostegno all’azione individuale. Essa è fondamentale per ottenere l’accertamento che l’istituto ha posto in essere anche una discriminazione collettiva.

Le dichiarazioni rese dalla responsabile dell’istituto in diverse sedi, inclusi telegiornali nazionali, in merito al trattamento che esso ritiene giustificato riservare a docenti omosessuali, palesavano, infatti, una discriminazione verso un’intera categoria di lavoratori. In quanto collettiva, la domanda di accertamento e condanna può essere avanzata unicamente da organizzazioni sindacali o organizzazioni rappresentative del diritto leso.

Il Tribunale riconosce la duplice forma di discriminazione e condanna la scuola cattolica al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore della lavoratrice, così come di un danno non patrimoniale in favore delle due organizzazioni. La lavoratrice e le organizzazioni propongono appello, lamentando da una parte l’incongruità del danno liquidato, dall’altra il fatto che non è stata accertata la natura ritorsiva e diffamatoria della condotta dell’istituto.

Invero, dopo che la lavoratrice aveva denunciato pubblicamente quanto successo, l’istituto ebbe a dire che questa durante le lezioni avrebbe parlato di sesso agli alunni, i quali sarebbero rimasti “turbati”. Si trattava di fatti generici, rimasti del tutto indimostrati nel processo e peraltro smentiti dalla stessa scuola nel contesto dell’istruttoria realizzata dalla Provincia di Trento. La Corte di appello trentina accoglie il ricorso con una sentenza approfondita che segna un passaggio importante della giurisprudenza in materia.

L’istituto, però, ricorre in Cassazione. L’ordinanza di integrale rigetto del novembre scorso si muove soprattutto sulle linee dell’inammissibilità dei motivi, in quanto essi chiedono una rivalutazione delle prove o una nuova rideterminazione equitativa dei danni. È in relazione al motivo che invocava il Concordato e l’articolo 7 della Costituzione che la Suprema Corte tocca la questione centrale del (non) potere di discriminare in capo agli enti religiosi, disconoscendo loro carta bianca: “parte ricorrente invoca disposizioni, anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione dell’Istituto religioso, ma non spiega adeguatamente come questa libertà possa legittimare condotte apertamente discriminatorie come quelle ritenute e accertate dai giudici trentini”.

Questa pronuncia è rilevante per diverse ragioni. Da una parte perché non constava giurisprudenza che desse evidenza pratica alla svolta di cui al decreto legislativo n. 216/2003, attuativo della citata direttiva, in relazione alle cosiddette organizzazioni di tendenza. Le decisioni erano ferme a vent’anni fa, quando alle scuole cattoliche era sovente riconosciuto ampio potere di licenziare in caso di divorzio o di altre condotte di vita “non conformi”. Per di più, in pendenza del giudizio di Cassazione ben due sentenze della Corte di giustizia dell’Unione hanno rafforzato i diritti dei lavoratori (spicca tra queste il caso tedesco del licenziamento, giudicato in sede europea discriminatorio, del primario di ospedale cattolico).

Sotto altro fronte, l’arresto del novembre scorso pone argine a una discrezionalità che, vantata come insindacabile, di fatto diverrebbe arbitrio. E ciò rileva non solo rispetto alle condotte di vita omosessuali, ma anche rispetto a ogni condotta di vita familiare, anche a orientamento eterosessuale. Pensando ai casi passati e presenti del matrimonio civile e del divorzio, ben si comprende la rilevanza per una parte rilevantissima della popolazione.

Infine, proprio alla luce dei fattori protetti dalla direttiva 2000/78, la tutela spetta non solo in relazione all’orientamento sessuale, ma anche rispetto a religione e convinzioni personali. L’altro caso deciso dalla Corte di giustizia riguardava la discriminazione subita da una candidata per un servizio di contrasto alla discriminazione razziale da parte della Chiesa evangelica tedesca. Non venne invitata al colloquio in ragione del fatto che non apparteneva a tale confessione. Questi fattori nel complesso garantiscono i lavoratori non solo in seno agli enti religiosi, ma in tutte le organizzazioni che si connotano per un ethos o una ideologia.

In conclusione, anche alla luce di una rilevante giurisprudenza della Corte europea per i diritti umani, si può ben parlare di rivoluzione copernicana: rispetto alla carta bianca accordata alle organizzazioni religiose nei decenni scorsi oggi la posizione è mutata, con una preminenza dei diritti di lavoratrici e lavoratori a non essere discriminati. Quanto più rileva: è oramai onore dell’organizzazione dimostrare di aver agito negli ambiti – oramai sempre più angusti – in cui ancora le sarebbe concesso far valere il proprio ethos per trattare diversamente i propri lavoratori.