Il 12 gennaio 1912, contro una riduzione dei salari, scendono in sciopero gli operai delle quattro fabbriche tessili di Lawrence, Massachusetts. Insieme ai bambini, la manodopera femminile è circa la metà della forza-lavoro delle fabbriche. Per meglio resistere alla pressione e ai ricatti padronali, gli scioperanti organizzano l’assistenza dei bambini e il loro trasferimento presso i simpatizzanti delle altre città. Nello sciopero di Lawrence troverà espressione la sacrosanta richiesta di una diversa qualità della vita, al di là delle necessarie rivendicazioni economiche.

Durante lo sciopero un gruppo di giovani operaie di picchetto ai cancelli di una fabbrica isserà - secondo alcuni per la prima volta nella storia - uno striscione con una frase che alla storia passerà: “We want bread and roses too” (Vogliamo il pane ma anche le rose).

“Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere - affermava Rose Schneiderman, leader femminista e socialista della Wtul, durante un discorso che rivendicava il diritto di voto femminile di fronte a una platea di suffragette benestanti a Cleveland - il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose. Date una mano anche voi, donne del privilegio, a darle la scheda elettorale con cui combattere”.

La frase ispirerà il titolo della poesia Bread and Roses di James Oppenheim, pubblicata nel dicembre 1911 sulla rivista The American Monthly e il poema sarà messo in musica nel 1974 da Mimi Fariña e registrato da vari artisti, tra cui Judy Collins, Ani DiFranco, John Denver e Josh Lucker.

“Da quando, nel 1912, venne scelta dalle operaie tessili di Lawrence come canzone - simbolo della loro dura lotta per il reddito e la dignità, ‘il pane e le rose’ non è più stato soltanto uno slogan né, tantomeno, una semplice canzone - si legge nella presentazione del volume Il pane e le rose. Femminismo e lotta di classe di Andrea Iris D’Atri - Autentico manifesto di un mondo a venire, ‘il pane e le rose’ sintetizza l’idea di una società dove si è più felici, realizzati, liberi. Una società, dunque, dove il tema dell’emancipazione della donna diventa il pilastro su cui fondare il senso di un riscatto collettivo, finalmente in grado di scardinare la divisione in classi e la relativa dinamica di sfruttamento e di oppressione economica e patriarcale”.

Pochi giorni fa Susanna Camusso scriveva:

“Si usa formulare i buoni propositi per l’anno nuovo ancor più se l’anno che si saluta è il 2020, un anno che ha sconvolto le nostre vite, che ha svelato fragilità e diseguaglianze che in troppi non volevano vedere, gli stessi che invocano il ritorno alla normalità. Non mi eserciterò in buoni propositi ma in pensieri, pensieri che descrivono strade diverse, provano a disegnare quel cambio di paradigma che tanti invocano, e poi si traduce in ricette già viste perché non ci si interroga sulle ragioni della fragilità del mondo e sul come ripararlo. Il primo pensiero è che senza le donne, continuando a escluderle e a marginalizzarle, non c’è cambio di paradigma. Senza le donne non si farà, non solo perché è già dimostrato che dove governano le donne si è affrontata meglio la pandemia, ed ognuno ed ognuna di noi sa che sono le donne in prima linea nel garantire quei servizi essenziali per affrontare la difficile quotidianità di questo lungo periodo foriero di insicurezze e paure. Ma senza le donne non si farà perché mancherebbe quello sguardo e soprattutto quei saperi che leggono il bisogno di cura, che sanno declinare l’economia della cura. Il mondo ha bisogno di cura, perché lo stiamo distruggendo, ha bisogno di rammendo e di scelte davvero diverse, che non lo inquinino e non lo consumino, ha bisogno di economia circolare, di produrre e riprodurre e non di armi che inquinano e distruggono. Di cura hanno bisogno le persone, sanità pubblica che renda effettivo il diritto alla salute, di prevenzione, di prossimità, di presa in carico. Di cura ha bisogno il lavoro, precario, sfruttato, frammentato, che ha invece bisogno di salute, sicurezza, certezze e qualità. Di cura ha bisogno l’economia piegata al profitto che arricchisce pochi e impoverisce molti. Di cura hanno bisogno bambine e bambini, di socialità di gioco e di creatività Di cura hanno bisogno ragazzi e ragazze, cura della loro istruzione del oro poter scommettere su futuro e progetti, di cura hanno bisogno le opportunità e la mobilità sociale. Di cura ha bisogno il territorio perché non frani e non degradi, come di cura hanno bisogno le città perché non siano estese periferie. Di cura hanno bisogno le anziane e gli anziani non di solitudine e di dipendenza. Di cura hanno bisogno gli spazi domestici perché non siano luogo di sopraffazione e di violenza. Di cura hanno bisogno le menti, perché conoscenza, formazione, cultura, arte, non siano privilegi. Di cura ha bisogno l’informazione perché le parole sono pensiero e la violenza si definisce come tale senza complicità e indulgenze. Di cura ha bisogno l’intelligenza artificiale perché non riproduca stereotipi diseguaglianze. Di cura hanno bisogno le amministrazioni e le istituzioni perché è loro responsabilità l’attuazione dei diritti sociali e di cittadinanza; cittadinanza di cui hanno bisogno migranti e rifugiati, cura di persone che "non vediamo” ma sfruttiamo. Cura è politica, economia, fondamento e non può essere reclusa nelle case, nella inventata “naturale propensione” femminile, funzionale a chiudere le donne nelle case ed escluderle dal palcoscenico pubblico. Palcoscenico pubblico che ha bisogno di cura perché reso cieco dal patriarcato e dalla non rappresentanza delle donne.

Vogliamo una società - scrivevamo qualche mese fa - in cui “il lavoro di cura non venga considerato una prerogativa esclusivamente femminile nella quale non si chieda più a nessuno a un colloquio di lavoro 'Lei ha intenzione di avere figli', o 'È sposata?'. Una società in cui un uomo che usufruisce del congedo parentale non venga definito 'mammo', nella quale una politica venga giudicata per i suoi meriti o demeriti e non per l’eleganza del vestito indossato o per la bellezza del taglio di capelli o dell’acconciatura. Una società che sappia tradurre le 'scoperte' di questa emergenza: che avere cura, prendersi cura, prendere in carico non è fatto privato, non è l’accudimento istintivo delle donne, ma la condizione della società futura. Una società dove servizio sanitario nazionale significa certezza di eguaglianza e servizi pubblici significano coesione sociale ed istruzione pubblica e disponibile è la scommessa collettiva per un futuro migliore. Quella società - che oggi ci manca - dove le persone e il loro benessere vengano prima del profitto. Quella società che oggi premia le professioni maschili e poi scopre di dipendere da personale sanitario, operatrici e operatori della distribuzione, angeli delle pulizie. Una grande moltitudine prevalentemente femminile che nella quotidianità del 'prima' non era vista, mal retribuita, poco considerata, anzi rimbrottata con il classico: 'Perché non hai scelto una professione maschile?'. Pensarci oggi perché domani si esca da un altro grande stereotipo, quello che la cura sia cosa di donne (sentite il tono di superiorità infastidita con cui vengono pronunciate queste parole!), per pensare che la cura è la sfida per tutte e tutti se vogliamo un futuro”.

Per tutte e tutti. Tutti insieme. Perché tutte insieme vogliamo tutto. Vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose!