La pandemia sta cambiando profondamente non solo la nostra società, ma il mondo intero. Drammaticamente si ripropone una discussione sulle disuguaglianze, e nuovamente si contrappongono forti e deboli. I deboli hanno e stanno pagando un prezzo altissimo, sia in vite umane sia in termini di difficoltà economiche e sociali. Ecco, come se le stesse fossero vite da scarto.

Dobbiamo fermare questo “ricorso storico” di gravità inaudita. Come farlo? Impariamo dal passato. Fu così proprio perché la seconda guerra mondiale produsse nella fase pre e post bellica una crisi economica drammatica, milioni e milioni di italiani senza lavoro, “senza di che mangiare”. Ed allora la politica pensò bene di investire tutto sul lavoro: i disoccupati, gli affamati vennero trasformati in forza lavoro e, quindi, ci fu ripresa, occupazione, benessere e pace sociale.

La prima considerazione è, guardando indietro a quegli anni, che investire sul lavoro è garanzia economica e democratica, che non si fa con i bassi salari, con lavori senza diritti, o con la precarietà e l’assenza di tutele. La politica dovrebbe lavorare per una strategia economica finalizzata alla piena occupazione, accompagnata dall'espansione dei diritti, e non mirante alla destrutturazione.

Ad un lavoro senza diritti e dignità, senza crescita culturale, politica e sociale, corrisponde una società egoista, individualista in cui ansie, fragilità ed insicurezza mettono seriamente a rischio il quotidiano di ognuno di noi. Non solo più per eventuali rivolte sociali, ma pensiamo ai drammi familiari, a quanti omicidi, suicidi avvengono a causa della perdita del posto di lavoro. Quanta frustrazione e fragilità angosciano i nostri giovani, non solo nella ricerca del lavoro, pur precario, ma nel sognare il proprio.

Il lavoro non è una merce, e dunque disoccupazione e precarietà rende più maledettamente difficile  per una persona con disabilità  l'inclusione lavorativa e rende più facile l'abbandono di un progetto di vita, compreso l'abbandono di uno sviluppo culturale e professionale con rischi di regressione di professionalità faticosamente acquisite. Per non parlare della conseguenza grave di una politica a favore delle aziende che scaricano i costi della precarietà allo Stato, costi che per forza andranno a scapito delle risorse destinate allo stato sociale, scuola, sanità, pensioni, assistenza, sviluppo di pari opportunità per le categorie svantaggiate, o per i più poveri. In Italia, prima della pandemia gli iscritti al collocamento obbligatorio per le persone con disabilità era di 800.000 unità. Ed oggi? Un milione?

Ritornando alla Giornata, che non riguarda solo l’Italia ma tutto il mondo, è molto importante soffermiamoci un attimo sulla nostra Europa. Nel vecchio continente vivono 37 milioni di disabili ma solo una percentuale molto bassa di loro usufruisce di una occasione di lavoro, nonostante le leggi nazionali sanciscano “il diritto al lavoro”. È quindi necessario un impegno per la costruzione di una cultura positiva, una coscienza di responsabilità di tutti i dirigenti politici, sindacali, intellettuali, giornalisti, di tutti gli attori sociali che formano appunto la cultura e la coscienza della collettività.

L'effettiva parità è ancora un traguardo da raggiungere; le discriminazioni esistono ancora e non sono da ricondursi a nostre sensazioni o ipersensibilità, ma dipendono da barriere fisiche e mentali esistenti che ci precludono la possibilità di realizzarci nella vita.

Le pari opportunità debbono quindi essere garantite a partire da una reale inclusione scolastica, per arrivare al mondo del lavoro e a tutti gli aspetti della vita civile. Si pensi che, ancora in molti paesi europei la scuola pubblica è preclusa ai disabili psichici e fisici con classi separate. Altra opportunità disattesa per milioni di lavoratori e lavoratrici disabili riguarda la formazione professionale che a mio parere dovrebbe essere continua e permanente, anzi, in considerazione delle ben note discriminazioni sarebbe opportuno che negli accordi sindacali ci fosse un vincolo specifico per la nostra categoria.

Bisogna formare le coscienze dei giovani dirigenti del domani. La nostra tesi è che la difesa dei diritti dei più deboli è anche una garanzia dei privilegi dei forti, che le ingiustizie sociali, lo sfruttamento, l'emarginazione producono danni incalcolabili. L'Europa va costruita su un sistema di diritti uniforme che definisca l'inscindibilità fra i diritti della persona e i diritti del cittadino: questa connessione non può che essere il punto di riferimento di tutti coloro che pensano ad una Europa in cui “la giustizia sociale sia un fondamento”. I forti non hanno bisogno di tutele, tutto ciò può sembrare retorico, ma retorico non è, tant'è vero che noi cittadini disabili per usufruire di diritti che per i normali rappresentano la normalità dobbiamo invece avvalerci di norme specifiche.

Il sindacato continuerà a fare la sua parte sempre meglio, attraverso la rappresentanza dei disabili nelle aziende, negli organismi, nelle confederazioni, nella contrattazione, nella rivendicazione della “giustizia sociale” che porterà nel futuro dignità per tutti gli uomini e le donne con disabilità e non.

Il 3 dicembre, Giornata internazionale della disabilità, speriamo segni un nuovo passo in una società che oggi è spaventata, sfiduciata, senza sogni, sofferente, incapace di sperare. Ecco oggi assumiamo delle nuove parole d’ordine: la nostra, come coordinamento nazionale per le disabilità Cgil, è solidarietà e rispetto. La solidarietà può diventare la cura efficace perché è concreta, pone rimedio alle distanze, riattacca i “cocci rotti” delle persone, rinsalda la fiducia dando sostegno ai respiri di ognuno.

Ma per fare ciò occorre che si abbia uno sguardo attento e profondo, che vada alla radice dell’umanità, affinché si curi della salute integrale delle persone, della sua dignità, soprattutto di chi viene escluso o si auto esclude, pensiamo alle donne e uomini con disabilità, alle madri, spesso sole, di bambini con disabilità, o alle famiglie abbandonate alla solitudine. Decliniamo i diritti, moltiplichiamo il bene, torniamo protagonisti di una società che può essere comunità, nel senso più vero della parola.

Nina Daita è la responsabile nazionale dell'Ufficio politiche disabilità della Cgil