Enrico Berlinguer è stato l’ultimo grande dirigente del comunismo italiano, parte integrante di un movimento internazionale che, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, visse un corrusco e rapido tramonto. Se le speciali circostanze della morte di Berlinguer, da cui proprio oggi sono trascorsi trentasei anni, ci consegnano una figura imbevuta di un’aurea mitica indiscutibile, non bisogna pensare che egli in vita non abbia combattuto duramente dentro e fuori il suo partito per portare avanti il proprio disegno politico.

È bene ricordare che quando Berlinguer pose il tema dell’austerità fu accusato di essere un frate zoccolante dedito al pauperismo e persino un profeta di sventura; quando avanzò la riflessione sul compromesso storico gli venne affibbiata la patente dispregiativa di cattocomunista e quando denunciò la questione morale venne tacciato di peloso moralismo: tutto coincideva per fare di lui un leader schivo, incapace di comunicare, anti-moderno.

Ad esempio si prenda la riflessione di Berlinguer sull’austerità, il primo dei suoi "pensieri lunghi", che non può essere ridotta a una semplice istanza moralistica o a un rifiuto intransigente del mondo dei consumi, ma va anzitutto storicizzata. Berlinguer nel 1977 era convinto di una crisi imminente del modello di sviluppo capitalistico, un pensiero spiegabile con la crisi petrolifera del 1973, con la sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, con la diffusione di regimi socialisti in Africa, con la crisi sociale presente nelle principali aree urbane del pianeta. Di conseguenza, inserì quel discorso in una linea di progressiva fuoriuscita da quel sistema, un progetto - è bene ricordarlo per non incorrere in dannosi anacronismi - presente pure nei programmi dei principali partiti socialisti europei, si pensi solo a quello francese guidato da François Mitterrand.

Piuttosto il principale errore di Berlinguer fu quello di sottovalutare gli elementi di dinamismo e le capacità di ristrutturazione del capitalismo in quel giro di anni. In effetti, nel momento in cui il capitalismo sembrava con la testa sott’acqua, ebbe la capacità di aprire una nuova fase storica del suo sviluppo nel segno di una rivoluzione informatica e tecnologica, di un aumento delle attività terziarie e di una de-localizzazione dei processi produttivi.

Per questa ragione credo che la lettura dell’austerità di Berlinguer abbia oggi maggiore interesse sul terreno dell’elaborazione culturale, che non su quello della politica economica. Anzitutto, egli era persuaso che il divario fra il nord e il sud del mondo avrebbe costituito un nodo centrale del nostro futuro, obbligando l’Europa a qualificarsi come soggetto politico forte e unitario. Si intravedono in questo passaggio i problemi e i limiti del mondo di adesso, quando ormai il terzo mondo non esiste più come soggetto politico, eppure continua a giungere nelle nostre tiepide case sotto forma di immagini televisive che raccontano di una realtà alla deriva sui barconi della speranza, immagini e storie che interrogano con la loro disperazione la nostra politica, mostrando tutta la sua egoistica fragilità.

Il secondo "pensiero lungo" di Berlinguer si riferisce alla necessità di interconnettere la politica italiana con l’ambito internazionale dentro un quadro di "governo mondiale" dell’economia che anticipò temi e processi propri della globalizzazione: come ha scritto Andrea Riccardi, l’austerità ebbe una sua geopolitica, ossia la convinzione che nessun avanzamento fosse possibile nei mondi dell’opulenza senza la soluzione dei problemi dei continenti della fame.

Il terzo "pensiero lungo" del segretario comunista è costituito dalla centralità della questione ambientale e delle tematiche ecologiste. Berlinguer contribuì a superare la prevalente cultura industrialista del Pci e a porre in forme inedite il problema di una nuova qualità dello sviluppo. In fondo, l’austerità nelle sue intenzioni era un patto fra quanti puntavano alla quantità dello sviluppo e quanti si ponevano anche un problema di qualità dello sviluppo: quale senso dare al lavoro, alla produzione?

La particolare attenzione al mutamento e alla tollerabilità dei modelli di produzione e di consumo rappresenta, a mio giudizio, la maggiore conseguenza della riflessione di Berlinguer sull’austerità. Una sensibilità che non credo avrebbe sposato oggi la teoria della decrescita di Serge Latouche, ma piuttosto si sarebbe orientata nella direzione di uno sviluppo compatibile con l’ambiente e con la qualità della vita secondo un nuovo umanesimo fondato su una crescita sostenibile dei viventi sulla stessa lunghezza d’onda di quello auspicato nel 2015 da papa Francesco nell’enciclica Laudatio si’.

Oggi queste tematiche ricorrono nella proposta di una green economy, tutta incentrata sulle energie rinnovabili e su una rinnovata cultura dei consumi. Anche qui è presente l’idea di uscire dalla crisi attraverso una grande trasformazione, una rivoluzione verde in grado di riattivare l’economia e di diventare un’opportunità interdipendente di crescita, nei Paesi industrializzati come in quelli del terzo mondo. Il rilancio economico prevede la realizzazione di una maggiore efficienza energetica, l’utilizzo di energie rinnovabili, una terza rivoluzione industriale, quella dell’economia a bassa emissione di anidride carbonica. Ma anche (e soprattutto)un nuovo stile di vita, improntato a una maggiore morigeratezza.

Bisogna impegnarsi per una cultura del risparmio e della lotta agli sprechi che parte dalla consapevolezza di una crisi del modello energetico petrolifero, non in grado di prevedere un futuro per due terzi dell’umanità. L’obiettivo deve essere quello di unificare due culture di solito antagoniste (quella industrialista e quella ambientalista) in una comune idea di cambiamento che abbia al centro il concetto di limite delle risorse e della necessità del loro riciclo.

In questa prospettiva, l’eredità di Berlinguer si presenta come un’eredità non solo difficile, ma anche impegnativa. Essa, infatti, non ha richiesto una passiva e automatica assunzione, ma piuttosto uno sforzo critico e un’elaborazione intellettuale originale da parte delle generazioni successive, che hanno dovuto e devono continuare a discernere l’utile dagli errori, l’attuale dal caduco, il vivo dal morto. Lo avrebbe chiesto lui perché, come disse al Teatro Eliseo nel 1977, "per trasformare la nostra società non si tratta di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia però sotto la pelle della storia, che sia cioé maturo, necessario, e quindi possibile".