Figura storica del Partito comunista italiano, protagonista del Novecento, Pietro Ingrao ha vissuto intensamente cento anni di storia del nostro Paese: la lotta partigiana, il rapporto con l’Urss, la guerra di Corea, Stalin, il 1956 ungherese, il Vietnam e l’autunno caldo, Moro, la crisi della democrazia dei partiti, il 1989 e la crisi dell’idea comunista. La fine del Partito. 

“L’emozione rispetto alla sorte del nome 'comunista' - scriveva dopo la Bolognina - non è un lamento di 'reduci'. È un grumo di 'vissuto', di esperienza sofferta di milioni di italiani che intorno a questo nome hanno combattuto non solo battaglie di libertà - che sono state condotte anche da altri che io rispetto - ma hanno visto la tutela dei più deboli, come patrimonio sepolto da valorizzare”.

La vita di Ingrao

Laureato in Legge e in Lettere e filosofia, Ingrao aderisce al Partito comunista clandestino nel 1940, partecipando attivamente alla Resistenza.

Dopo la Liberazione, il Partito gli affida incarichi di sempre maggior rilievo: direttore de l'Unità  dal 1947 al 1956; membro del CC dal VI Congresso; membro della Direzione dal 1956; nella Segreteria dal 1956 al 1966 quando al Congresso rivendicherà il “diritto al dissenso”. Deputato dal 1948 per dodici legislature, nel 1992 chiederà di non essere ricandidato.

Presidente del gruppo parlamentare comunista alla Camera nel 1968, presiederà - succedendo a Sandro Pertini - l’Assemblea dal 5 luglio 1976 al 1979, quando chiederà di non essere confermato. Alla presidenza della Camera dei deputati gli succederà Nilde Iotti.

Le testimonianze

Scriveva Paolo Franchi sul Corriere della Sera in occasione del suo centesimo compleanno: “La Resistenza, la direzione dell’Unità, Botteghe Oscure, la Camera dei deputati, di cui sarà, tra il 1976 e il 1979, il primo presidente comunista, il Centro per la riforma dello Stato. Il cursus honorum del Pci Ingrao, amato dalla sua gente assai più che da gran parte dello stato maggiore del partito, dal quale lo ha diviso per sempre la battaglia “da sinistra” data (e persa) nel 1966, all’undicesimo congresso, lo farà tutto. A quel nome grande e terribile, comunismo, e a quel 'grumo di vissuto' rappresentato dalla vicenda storica dei comunisti italiani, resterà fedele fino e oltre il momento dell’ammainabandiera. Ma a modo suo. Che non è stato il modo di un movimentista (orrendo neologismo) o di un sognatore. Perché Ingrao guarda attento e curioso ai mutamenti che investono la società, il lavoro, l’economia, i movimenti collettivi. E anche il costume”.

“Detesto - scriveva nel settembre del 2015 Bruno Ugolini - tutti coloro che in queste ore scrivono e parlano di Pietro Ingrao come di un sognatore, un acchiappa nuvole. Uno che conosceva solo la dimensione utopistica delle barricate e non la traccia del politico realista (…)  Lui aveva un chiodo fisso: coltivare la democrazia, rendere le masse protagoniste e non semplici spettatori chiamati ogni tanto al voto. (…) Ricordo bene quell’undicesimo congresso del Pci che lo vedeva prima massicciamente applaudito (dalla platea) e poi sottoposto a veementi reprimende da parte di quasi tutti i dirigenti, a causa di quelle sue parole cocenti (“Non mi avete convinto”). Era la richiesta del “diritto al dissenso”, che per me, allora giovane cronista, consegnava emozionanti speranze (…) Ecco perché ho amato Pietro Ingrao. Perché non aveva la sicumera del burocrate. E non penso che alla fine abbia perso tutte le sue battaglie e basta. È vero che quel movimento in cui credeva come fautore di democrazia si è affievolito, prima ferito dal terrorismo suicida, poi perso spesso in mille rivoli, anche a causa di imponenti rivolgimenti produttivi”.

“Queste resistenze - scriveva il partigiano Guido su Rinascita - e incomprensioni saranno tanto meglio superate quanto più il sindacato disporrà di un potere reale nella fabbrica e nella società; quanto più insomma disporrà della forza e dell'autorità per motivare la sua autonomia, per renderla trascinante e obbligante, per scoraggiare e vanificare tutte le strumentalizzazioni. Il sindacato sarà tanto più forte di fronte alle possibili strumentalizzazioni da parte dei partiti quanto più saprà rendere operante ed effettiva la sua autonomia”.

“Abbiamo imparato - affermava - anche dagli altri, abbiamo capito, abbiamo corretto? Certo. E molto. Evviva: siamo stati un corpo vivente. Abbiamo avuto anche lentezze e ritardi: errori anche pesanti. Abbiamo faticato a liberarci dal 'sovversivismo'. Forse perché nascevamo da gente che da tempo, da troppo tempo, era stata tenuta in ginocchio. E come potremmo scordare che ad aiutarci, a farci alzare in piedi, sono stati questi, Gramsci, Togliatti, Di Vittorio? No, non erano santi: nemmeno Gramsci”.

No, non erano santi. Ma ci mancano, Pietro. E ci manca anche Bruno. Ci manchi anche tu. Perché su troppe cose non siamo ancora persuasi. Perché in fondo la luna la vogliamo ancora.

Abbastanza presto ho avuto la consapevolezza, e direi anche il bisogno, di una sinistra plurale, una ‘curiosità’ verso altri filoni della sinistra. Insomma: molto orgoglio comunista (anche se la parola ‘orgoglio’ non sta proprio dentro al mio vocabolario: la uso con riluttanza), ma anche  un assillo, sempre, di guardare al di là dei nostri paletti. Nelle mie limitate forze, io non sono un integralista come qualcuno è andato dicendo, ma piuttosto un uomo di ‘frontiera’. Certo, da comunista testardo, ma sempre pieno di curiosità verso gli altri. Diviso dentro di me tra un desiderio di convento mai realizzato (ma non in senso religioso!), e una grande, estrema curiosità verso gli altri, verso le diversità.