"Chiamatemi ex politica - era solita dire Lidia Menapace - ex parlamentare, ex insegnante, ma non chiamatemi mai ex partigiana. Perché io partigiana lo sarò per sempre”. 

Livia Turco scriveva che Lidia raccontava ai giovani

la sua giovinezza sotto i bombardamenti, le fughe in bicicletta, la paura di incontrare lungo la strada i nazifascisti, i messaggi in codice imparati a memoria, i libri studiati al lume di candela, durante i coprifuoco. Ha così testimoniato con la forza della vita vissuta come le donne siano state protagoniste della lotta partigiana e siano state importanti per avere la Costituzione più bella del mondo. Ha testimoniato con la sua presenza, il suo racconto, la sua parola, che la nostra Repubblica e la nostra Costituzione hanno dei Padri e delle Madri. Ha contribuito a rompere quel pervicace tetto di cristallo per cui la nostra Costituzione veniva e viene ancora troppo nominata per i suoi Padri, tacendo sulle sue Madri (…) Lidia Menapace fa parte di quella catena di madri che hanno costruito la democrazia e la giustizia sociale, che hanno scritto una nuova tavola di diritti, che hanno vissuto la politica come passione, sfida, impegno ed anche allegria. 

 

L'impegno politico

Nel 1952 la partigiana Bruna si trasferisce in Alto Adige e nel 1964 è candidata tra le fila della Democrazia Cristiana al Consiglio provinciale di Bolzano (è, insieme a Waltraud Gebert Deeg la prima donna eletta).

All’inizio degli anni Sessanta inizia a insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista. Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui offre per anni il suo fondamentale contributo. 

Piccola ma solo di statura, mai arrendevole, Lidia è stata una maestra, nel senso più vero e più bello della parola. Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo "carsico" come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza.

Il pacifismo di Lidia Menapace

Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”. Sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. 

Non so nemmeno più quando incominciai ad essere interessata al tema della pace - scriveva nel proprio libro autobiografico edito nel 2015, Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita - ma certo presto, perché nelle discussioni e nei convegni, negli incontri e nei dibattiti intorno al ’50 e poi via via in ogni occasione nei decenni successivi sempre illustravo come massimamente innovativo l’art. 11 della Costituzione, che appunto ripudia la guerra (…) Costruire la pace in ogni modo è la maniera migliore di “ripudiare” (un verbo molto forte) la guerra. (…) Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare. Di ciò ero convinta da subito, già da quegli anni immediatamente postbellici, e infatti scrissi un articolo subito dopo il lancio della prima atomica sul Giappone, che presentai all’ufficio della censura americana a Novara (allora, come tutto il Paese, sotto l’occupazione dei vincitori della guerra). Scrivevo che l’atomica buttata sui civili di un Paese vinto e che stava trattando la resa e la pace “ci mette alla pari coi nazisti”. Fu rifiutato perché “non c’era spazio” e alla mia proposta di passarlo l’indomani dissero: “Domani ci saranno altre notizie”. Imparai che cosa è la “censura democratica”. Oggi si dice (e non è una battuta di umorismo nero) che gli arsenali atomici contengono armi tante da poter distruggere undici volte il pianeta, che è la definizione stessa di follia, quella che nel sonno della ragione genera mostri. Negli anni a cavallo dell’80 esplose il pacifismo, e io ero sempre presente. Stavo nell’organizzazione e nella promozione di tutte le marce per la pace, le manifestazioni, gli eventi: è mio il motto “Fuori la guerra dalla storia”, lo slogan più presente in quegli anni. Volevo che la guerra non fosse una continuazione della politica con altri mezzi. Per questo cercai di liberare il linguaggio politico dal linguaggio di guerra: da “militanza” a “impegno” e da “non violenza” ad “azione non violenta”.

“Lidia Menapace - affermava nel dicembre del 2020 Giulio Marcon - come Alex Langer, veniva da un luogo di frontiera sociale, linguistica e culturale e non solo geografica (il Sud Tirolo); era una donna che portava sempre idee e proposte originali, brillanti, che spiazzavano, ma convincevano chi la stava ad ascoltare. Era attenta alle parole, alle sue sfumature. Parlava di pratiche e non di strategie. Denunciava la guerra, ma non rinunciava alla lotta, che a differenza della guerra - ci ricordava - ha delle regole e non è cruenta”.