Da oltre un decennio il nome di Alberto Prunetti conduce alla scrittura che si occupa del mondo del lavoro, interpretandola in maniera del tutto personale e originale, come dimostra l’essenziale trilogia Amianto. Una storia operaia (2012), 108 metri. The new working class hero (2018), e Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia (2020). E se gli ultimi due volumi di questa trilogia si legano a un editore storico come Laterza, proprio l'esordio con Amianto, pubblicato dalla piccola e indipendente Alegre edizioni, costituisce un punto d’incontro fondamentale per una riflessione avviata ormai da tempo sulla letteratura working class, che ha dato vita all’omonima collana curata dallo stesso Prunetti. Ora è minimum fax a confermare la consueta attenzione anche per le trasformazioni della società contemporanea, accogliendo nel suo catalogo in "Filigrana" Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (pp.240, euro 15), libro fondamentale scritto da Prunetti per comprendere come si muove e potrebbe svilupparsi la letteratura che si occupa di lavoro e lavoratori, nel quale ancora una volta l’autore offre ai suoi lettori una scrittura a sé, in questo caso mescolando con efficace intuizione saggistica e narrativa. Proprio da qui siamo partiti in questa nostra intervista.       

"Tutti i miei libri sono un mix strano, degli ibridi con forme testuali diverse, tra la narrativa, il memoir, la fiction e il pamphlet. In passato mi sforzavo di seguire forme espressive vicine al romanzo e alla narrativa, mentre questa volta ho affrontato una dimensione saggistica. La mia idea era un libro tra la narrativa e la saggistica, il che era già un problema. E qui racconto anche di "Amianto", che quando è uscito nel 2012 veniva inserito nella saggistica del lavoro, mentre per me è letteratura working class, per la quale non c’è un posto specifico tra gli scaffali. Ora le varie Feltrinelli, in particolare tra Milano e Torino, iniziano a riservare uno spazio alla letteratura working class, con autrici come Pia Valentinis, per parlare di un'italiana, o di D. Hunter, per fare un esempio anglosassone, e forse questa è la cosa migliore da fare. Quello di cui sono diventato consapevole nel mio stile di scrittura è che non devo soddisfare degli standard critici, perché questa verve, questo modo di raccontare storie mi accompagna sempre, anche quando provo a fare qualcosa di diverso, cercando di riflettere meglio".

Sembra però che una parte di editoria italiana, non solo quella indipendente, si stia interessando di più a questo tipo di scrittura. Forse si è accorta dell’esistenza di un mercato editoriale ancora poco battuto?
Lo spazio c’è, noi ci siamo; ma è uno spazio che si deve allargare, perché tanto più resterà confinato nella riserva indiana della piccola editoria, tanto meno sarà rilevante rimanendo nella sua nicchia più confortevole, tra circoli Arci e centri sociali, dove ci scriviamo tra noi. L’ho capito paradossalmente con “Acciaio” di Silvia Avallone, un libro che in questo saggio analizzo a fondo per tutte quelle che secondo me sono evidenti criticità, ma che è riuscito a rompere determinati equilibri rispetto alle opere pubblicate da piccole case editrici: le quali tendono non solo a non pagare, ma a non vendere oltre le 1.000-1.500 copie, assicurando così a chi scrive giusto lo stipendio di un mese, con cui alla fine non riesci a sopravvivere. Così, se rimaniamo nella piccola editoria, prima o poi dobbiamo smettere di scrivere, perché le piccole case editrici fanno da sponda, ma non potendo far girare grandi numeri non possono neanche garantirti una sicurezza economica. L’importante è sfondare il tetto del mainstream come accaduto altrove, vedi Scozia, Gran Bretagna, Svezia, dove gli autori working class pubblicano con editori grandi e importanti. Certo, questa è un’epoca in cui assistiamo anche al fenomeno del “vanity press”, di chi paga per vedersi pubblicare il proprio testo. Ma questo è un altro tema.

La letteratura working class può anche attirare lettori diversi dal cosiddetto nucleo di “lettori forti”?
Lettori diversi? Forse. In Italia siamo indietro, penso appunto alla Svezia, o alla scena britannica, o ancora al recente riconoscimento del Premio Nobel ad Annie Arnaux, in fuga dalla sua classe di origine… Ma bisognerebbe chiedersi come mai in Italia, per leggere l’opera di Annie Arnaux abbiamo avuto bisogno, dieci anni fa, di un piccolo e coraggioso editore come l’Orma. Una scoperta tardiva, che credo derivi anche dal fatto che la stessa Arnaux agli inizi si muoveva con imbarazzo nel mondo dell’editoria francese, a causa del suo ceto sociale. Questo per dire che esiste un’industria editoriale classista, specialmente in Italia, dove i potenziali scrittori provenienti da ceti popolari fanno un po’ da folklore, mentre in UK sei cultura di coloro che stanno “di sotto”, ma sei cultura. Si pone allora un’altra questione: l’industria editoriale italiana è pronta a interrogarsi in tal senso, per capire cosa stia e cosa non stia accadendo?

In questo senso c’è chi dice che bisognerebbe ragionare meglio di fronte anche alla trasformazione del cosiddetto ceto medio, parte del quale si scopre improvvisamente impoverito, iniziando a lottare insieme al ceto povero “tradizionale”...
Sì, ma il rapporto tra piccola borghesia e classe lavoratrice si sta rivelando anche portatore di grossi fallimenti, perché i piccolo borghesi si radicalizzano politicamente, ma parlando a nome dei lavoratori:. E questo mi fa molto male, perché credo si dovrebbe avere l’umiltà di dare spazio alle persone povere, facendole parlare (e scrivere) con la propria voce,

In questa prospettiva, quale dovrebbe essere il ruolo di un’organizzazione sindacale?
Partiamo da un presupposto: più sindacato c’è meglio è, anche perché tanto del lavoro di oggi in Italia non è sindacalizzato. Negli Stati Uniti, per fare un esempio, ormai da qualche tempo si sta sindacalizzando il settore della ristorazione, cosa da noi impossibile da realizzare, come in altri comparti dove i sindacati dovrebbero intervenire di più in difesa dei working poor, del sommerso in grigio e in nero, in particolare rispetto allo sfruttamento delle campagne, dei nuovi braccianti. C’è un lavoro enorme da fare, in contrasto a una retorica neoliberista che demonizza il sindacato, un sindacato che secondo loro non serve, che non fa nulla, fa solo “perdere tempo”, contrapponendo la retorica degli imprenditori che lavorano davvero, rovesciando l’immagine di chi lavora e chi sfrutta.

Come se ne esce?
C’è bisogno di un grande lavoro dal basso, di autorganizzazione, restituendo alle persone la consapevolezza dei diritti che hanno, perché il lavoro non è un diritto privato. Non si vende la forza-lavoro, e tu non puoi fare di me ciò che vuoi, ci sono diritti inalienabili che si devono determinare in maniera contrattuale su scala nazionale. Invece assistiamo alla mercificazione del lavoro: ma se la merce la compri, allora ti senti nella posizione di poterla anche distruggere, perché se una cosa è tua la puoi anche fare a pezzi. Ma i lavoratori non si comprano, non sono merce, e non si possono distruggere.

Su questo dobbiamo riflettere, tutti. Cominciando nelle scuole.