"Eccola, dunque, la storia". E narra di fatti veri e documentati. Nel volume pubblicato da Zolfo editore, Giacomo Di Girolamo mette in fila gli eventi che all’interno di Cosa nostra portarono agli omicidi, tra gli altri, dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo sforzo dell'autore sta nel cambiare il punto di vista dell'indagine, provando con successo "a mettersi nelle scarpe, nel corpo, nelle ombre" dei mafiosi, nelle loro contraddizioni e miserie per sfuggire alla retorica delle celebrazioni, all'agiografia delle vittime, per far tornare le parole al loro mestiere. Per cercare di ribaltare la prospettiva.

"Voi non ci credete, ma i più sinceri e precisi biografi del dottore Falcone eravamo noi. Noi eravamo gli unici ad appuntare i suoi avanzamenti di carriera e i suoi successi. ... Questa cosa del pool a noi aveva cominciato a preoccupare, sempre per quel fatto che noi, come Cosa nostra, eravamo prima di tutto criminalità organizzata, e in questo aggettivo c'era tutto. La magistratura, invece, era disorganizzata, per usare un eufemismo. Ognuno che si faceva i cazzi suoi, colleghi che si odiavano, magistrati che si imboscavano o pensavano a come sistemare le amanti. Quelli, invece, del pool, avevano cominciato a ragionare come... la criminalità organizzata! Si davano i compiti, condividevano le informazioni, mettevano insieme le carte. ... Ci hanno fatto i raggi X quelli del pool."

 

Il maxi processo dell’Ucciardone si stava concludendo con una mafia braccata, messa a nudo, colpita negli interessi economici, sezionata dai giudici in ogni suo snodo: all'alba degli anni Novanta i magistrati avevano ben chiara la catena di comando. Conoscevano ogni rito, gli incaprettamenti e la lupara bianca, i passaggi di denaro, l'importanza delle parole non dette. Sapevano tutto, e stavano iniziando a comprendere anche quanto cruciale fosse, ai fini dell'organizzazione, il ruolo delle famiglie della provincia di Trapani, capaci di fornire armi, esplosivi e nascondigli.

Messo all'angolo, Totò Riina decide di passare al contrattacco. Se l'esistenza di Cosa nostra per la prima volta si rivela un fatto storico, scolpito nelle sentenze del maxiprocesso, il boss si sente autorizzato a giocare a viso scoperto, "a fare la guerra per poi fare la pace", alzando drammaticamente il livello dello scontro con una serie di azioni atroci.

Le stragi di Capaci e di via D’Amelio furono solo due degli omicidi e atti terroristici messi in fila tra la fine del 1991 e il 1993. Un attacco allo Stato già attanagliato in una tempesta perfetta di bombe, Tangentopoli e una crisi economica mai vista prima. La strategia fu quella di inviare segnali eloquenti attraverso l'eliminazione di personaggi come Pippo Baudo e Maurizio Costanzo, che avevano manifestato pubblicamente il loro essere contro la mafia. La barbarie traccia un arco temporale che va dall'omicidio di Salvo Lima (massimo esponente, in Sicilia, della corrente democristiana che faceva capo a Giulio Andreotti, reo di non essere riuscito a impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi al termine del maxiprocesso), alle bombe di Roma, Firenze e Milano tra il 27 maggio e il 27 luglio 1993.

Nel libro, Di Girolamo ferma il momento in cui la mafia cambia pelle, descrive l'intuizione vincente del boss Matteo Messina Denaro di abbandonare la strategia stragista, per liquefare l'organizzazione in un fiume sotterraneo, trasformarla in Cosa grigia – titolo di un altro fortunato libro di Di Girolamo edito da Il Saggiatore – penetrando sempre più nel tessuto economico e politico, proponendo holding e partiti propri, estendendo i propri tentacoli lontano dalla Sicilia grazie a manager eleganti e incensurati.

La "pace" immaginata da Totò Riina arriva qualche mese dopo il suo arresto, avvenuto nel gennaio del 1993, quando l’efferatezza dei Corleonesi – sempre con la lupara pronta e il cappio in mano – si dimostra anacronistica di fronte ai nuovi obiettivi di una mafia in doppiopetto. E dopo l’ultima bomba di Milano, di Messina Denaro si perdono totalmente le tracce. Come il Cretto di Burri che a Gibellina ha coperto le macerie del terremoto del Belìce del 1968, Messina Denaro – scrive Di Girolamo – ha tracciato un'opera d'arte sulle macerie della vecchia Cosa nostra. Una colata di cemento, una cicatrice, un labirinto che ci tiene ancora prigionieri. 

Il male è più affascinante del bene. E Giacomo Di Girolamo sceglie di raccontarlo, descrivendo i fatti che nella Sicilia Occidentale, portarono ai quei mesi terribili. Niente servizi deviati, niente massoneria, niente tutti-sanno-che, niente trattativa Stato-mafia. Perché – spiega l'autore – non si tratta della trattativa ma di una trattativa. La mafia è mafia proprio per questo: tratta. Lo ha sempre fatto. Lo farà.