Si terrà mercoledi 7 ottobre, alle ore 19, alla Casa internazionale delle donne la presentazione (all'aperto e in streaming) del libro “Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza”, con Beatrice Busi, Valeria Ribeiro Corrossacz  e Alessandra Gissi. Coordinamento a cura di Sara Picchi

Mentre negli anni sessanta e settanta il femminismo rimetteva in luce la funzionalità all’economia capitalistica del lavoro di riproduzione e di cura svolto gratuitamente dalle donne, “bucava” al contempo una necessaria alleanza con le lavoratrici domestiche salariate, provenienti dalle zone rurali o migranti dalle ex colonie italiane in Africa. Quelle che si chiamavano “la donna”, “la donna di servizio”, se non “la serva”, la “servetta”, nonostante i tentativi di una difesa dei loro diritti in atto fin dagli anni cinquanta, a opera soprattutto delle Acli.

Ma questi appellativi svelavano al contempo anche l’equivoca indistinguibilità tra lavoratrici domestiche salariate e l’ambigua figura della casalinga, al tempo stesso “signora e serva, padrona e bambinaia”. Così Vincenza Perilli nel libro “Separate in casa” (Ediesse), che sarà presentato il 7 ottobre a Roma, alla Casa internazionale delle donne. L’autrice nel suo saggio ripercorre questi stereotipi nel percorso del cinema italiano e delle pubblicità, con illustrazioni davvero emblematiche.

Ma così tutta questa raccolta di saggi, curata da Beatrice Busi, che da una “riflessione sulle mancate alleanze del passato” si riconnette alle condizioni delle donne native e migranti nel mercato del lavoro di cura ieri e oggi, affrontate da diverse autrici (Valeria Ribeiro Corossacz, Alessandra Gissi, Alisa Del Re, Anna Frisone, Alessandra Pescarolo, Elena Petricola, Raffaella Sarti e la citata Vincenza Perilli).

Oggi è in particolare il movimento transnazionale Non una di meno che ripropone queste tematiche, non a caso “lo sciopero” indetto annualmente dai movimenti femministi di tutto il mondo esprime la centralità del lavoro di riproduzione, un “vero lavoro” in base al quale “le donne scioperano”, anche solo con pratiche di disvelamento simbolico.

Il divieto di contrattazione collettiva nel lavoro domestico, ereditato dal fascismo, viene abolito dalla Corte Costituzionale solo nel 1969; fino ad allora da parte democristiana si voleva evitare il rischio di estendere la lotta di classe e le tensioni sindacali nella sfera privata familiare, e da parte della sinistra storica si adduceva la difficoltà di superare l’isolamento delle lavoratrici domestiche per organizzarle sindacalmente. Solo nel 1974 viene stipulato il primo contratto nazionale di lavoro e si sviluppa la valorizzazione del ruolo sociale delle lavoratrici domestiche.

Oggi è proprio questa “storia della separazione tra produzione e riproduzione e dell’assoggettamento dei lavori di riproduzione alla logica eteropatriarcale, razzista e capitalistica a indicarci l’urgenza di (ri)costruire alleanze tra movimenti femministi e organizzazioni delle lavoratrici domestiche”, come sostiene Beatrice Busi nella sua introduzione al volume.