Ricominciare a parlare di euro dopo il gran botto del referendum greco, e senza sapere ancora dove ci porterà, è un compito a un tempo disperante e inevitabile. Sull’euro, all’inizio di questo travagliato 2015, avevo tentato di effettuare un ragionamento il più possibile pacato, cercando di appoggiarlo sui fondamenti (solidi?) della teoria economica. Le mie conclusioni di allora erano molto simili a un recente statement di Krugman, espresso parlando (per scoramento) non della Grecia, ma della Finlandia: fare l’euro non è stata affatto una buona idea, ma questo non significa che oggi sia una buona idea uscirne. Provo ora a ripercorrere, in forma più contratta (per necessità di spazio) e meno tecnica (per venire incontro alle esigenze dei lettori), quanto avevo scritto all’inizio di quest’anno.

Fare l’euro non è stata una buona idea perché non conveniva. Per un gruppo di economie dar vita a un regime di unione monetaria conviene quando i vantaggi (riduzione dei costi di transazione, dell’incertezza degli scambi, dei tassi di interesse; rimozione del vincolo estero, centralizzazione delle riserve valutarie) compensano gli svantaggi (rinuncia alla possibilità di usare la moneta e il tasso di cambio a fini di politica economica, accettazione di vincoli stringenti alle politiche di bilancio). Perché i vantaggi superino gli svantaggi occorre che le caratteristiche delle economie aderenti siano tali da configurare un’area valutaria ottimale, cosa che si verifica se quelle economie sono sufficientemente omogenee (cioè hanno strutture economiche e istituzioni simili, e sono soggette agli stessi shock) e sufficientemente integrate (le vendite e gli acquisti dei singoli si “spalmano” in modo uniforme nei vari mercati dell’area).

L’omogeneità garantisce che ci sia bisogno delle stesse politiche economiche, l’integrazione garantisce che ci sia meno bisogno di politiche economiche. Se questi requisiti mancano, o sono soddisfatti in misura inadeguata, devono subentrarne altri due, ossia la flessibilità dei prezzi e dei salari e la mobilità degli input (lavoro e capitale). Il complesso dell’eurozona non soddisfa in maniera adeguata nessuno di questi requisiti, che invece sono abbastanza soddisfatti in un sottogruppo di paesi, quelli che gravitano attorno alla Germania. Per questo motivo, molti studiosi prevedevano che l’euro non avrebbe retto agli shock che, prima o poi, avrebbero inevitabilmente investito l’area.

Nonostante ciò, l’eurozona è stata costituita lo stesso. Perché? Essenzialmente per un compromesso politico tra Francia e Germania: la prima accettava il fatto compiuto dell’unificazione tedesca, la seconda accettava di diluire il marco nell’euro e la Bundesbank nella Banca centrale europea. L’idea, soprattutto dal versante tedesco, era quella di un’eurozona ristretta, in sostanza un’area del marco allargata alla Francia e gestita in condominio. Dato però che non si poteva non rivolgere l’invito a tutti i paesi dell’Unione europea, si trattava di fare in modo che i paesi mediterranei, considerati inaffidabili, declinassero l’invito. A questo scopo vennero definiti dei requisiti molto stringenti per poter entrare a far parte dell’eurozona: i famosi parametri di Maastricht. Questi riguardavano l’inflazione, il tasso di cambio, i tassi di interesse a lungo termine, il disavanzo e il debito pubblico.

Questi requisiti non avevano lo scopo di trasformare i paesi della costituenda eurozona in un’area valutaria ottimale, ma avevano appunto lo scopo di convincere i paesi mediterranei a restarne fuori. Il risultato dell’operazione non è stato, però, conforme a queste attese. Mentre alcuni paesi, come il Regno Unito, si sono affrettati a declinare l’invito, gran parte dei paesi mediterranei ha deciso di accettare la sfida e si è presentata all’appuntamento con le carte (quasi) in ordine, sicché invece dell’eurozona ristretta dell’originario compromesso franco-tedesco ci si è ritrovati con una eurozona allargata (e in espansione). Anche le motivazioni che hanno spinto i paesi mediterranei a impegnarsi nelle politiche necessarie per arrivare a rispettare i parametri di Maastricht non avevano nulla di comunitario. L’Italia puntava a farsi imporre dall’estero decisioni di risanamento della finanza pubblica che era incapace di prendere autonomamente, e puntava anche a incassare il cospicuo dividendo del drastico calo dei tassi di interesse associato alla moneta unica. La Spagna puntava ai grandi finanziamenti dei capitali europei, e così via. Insomma, nessuno, né fra i proponenti, né fra gli aderenti, aveva una strategia di respiro europeo. Come dire che l’euro nasceva male.

Ed è stato realizzato peggio. La gestione della moneta unica era affidata a una Banca centrale con una funzione-obiettivo rigidamente improntata al controllo dell’inflazione, e con un meccanismo decisionale in cui, nonostante la pretesa indipendenza dell’istituzione, restava rilevante il condizionamento politico (di cui abbiamo avuto una chiara testimonianza nella recente gestione della crisi greca). Le istanze degli Stati aderenti si sono sempre fatte pesantemente sentire, e non solo per il tramite delle Banche centrali nazionali (che non sono state sciolte). Mancavano del tutto gli strumenti per effettuare, al livello dell’eurozona, politiche di bilancio e politiche regionali. Quel poco che c’era riguardo a queste ultime era gestito al livello dell’Unione, e perciò anche dagli Stati che non partecipavano all’eurozona. Più in generale, tutti gli organismi decisionali della politica economica (l’Eurogruppo e il Consiglio dei capi di Stato e di governo) riflettevano il peso preponderante delle funzioni-obiettivo nazionali. Come è stato detto più volte, l’Unione europea (e al suo interno l’Eurozona) è sempre rimasta, finora, una confederazione di stati indipendenti.

In questa situazione, il singolo paese aderente all’unione monetaria che si trova a dover fronteggiare uno shock recessivo, e a cui i vincoli europei (Patto di stabilità) non lasciano margini adeguati per manovrare in chiave espansiva il proprio bilancio, ha decisamente poche armi a disposizione. Non può fare affidamento sulla domanda interna, che non può alimentare né con la politica monetaria (che spetta alla Bce), né con quella di bilancio. Gli rimane solo la domanda estera, ma, dato che anche il tasso di cambio è fuori del suo controllo, l’unica strada che gli resta (se escludiamo, per ipotesi, una favorevole congiuntura internazionale o l’adozione di vigorose politiche espansive nel resto dell’eurozona o nel resto del mondo) è quella dell’aumento della competitività, da perseguire con la svalutazione salariale, la crescita della produttività, e gli interventi sulla concorrenza, una strada i cui effetti maturano, quando lo fanno, solo nel lungo periodo. In pratica, dovrebbe imitare la strategia adottata da tempo dalla Germania, il paese leader dell’eurozona (e questo, naturalmente, senza essere la Germania).

I principali vantaggi che derivano al paese dal partecipare alla moneta unica sono quelli di non dover rispettare il vincolo estero, e di poter contare su finanziamenti a basso costo dal resto dell’area (per lo meno fino a quando l’accumularsi del debito estero non fa emergere un rischio paese e uno spread sul tasso di interesse). Se i flussi di fondi dai paesi in surplus a quelli in deficit vengono utilizzati da questi ultimi per finanziare l’accumulazione di capitale e la crescita della produttività, può mettersi in moto un processo di convergenza che va nella direzione dell’emergere di un’area valutaria ottimale “endogena”. Tuttavia, le frequenti turbolenze nei mercati finanziari internazionali possono sempre mettere a rischio un tale processo. Negli ultimi anni, dopo l’esplodere della crisi economica internazionale, lo hanno fatto: in molti paesi dell’eurozona la crisi dei debiti esteri ha messo in difficoltà le banche, con conseguente esplosione dei debiti pubblici (per l’impegno dei governi nei salvataggi bancari). Dopo di che il segno delle politiche di bilancio è diventato ulteriormente restrittivo, gettando olio sul fuoco della crisi economica.

Uscire dall’euro allora? È un’ipotesi che continua ad avere molti sponsor. Purtroppo gran parte dei vantaggi attesi da una tale scelta è solo apparente. Su un piatto della bilancia si trova la possibilità di fare default e liberarsi del debito estero senza pagarlo. Si ritrova il controllo degli strumenti della politica monetaria e di quella di bilancio. Si ritrova la possibilità di manovrare (svalutare) il tasso di cambio, in modo da rendere compatibile il vincolo estero con la crescita della domanda interna. Questi benefici, soprattutto per un paese che importa poco ed esporta molto, non sono da buttare (ma forse un paese con tali caratteristiche non ha necessità di uscire dall’euro). Sull’altro piatto ci sono l’inevitabile rinuncia ai finanziamenti esteri (conseguenza del default) e l’inflazione (conseguenza del deprezzamento del cambio). Ne consegue il frutto più velenoso dell’uscita dalla moneta unica, la diminuzione dei salari reali, dovuta all’aumento dei prezzi a parità di salari nominali.

Proprio lo stesso costo che si deve pagare per restare nell’euro (sia pure nella forma simmetrica, ma meno socialmente digeribile, della diminuzione dei salari nominali a parità di livello dei prezzi). E se si esce dall’euro e si indicizzano i salari? In questo caso, il risultato, apparentemente paradossale, ma in realtà logico, è che la politica economica perde il controllo del cambio nominale e può far crescere il prodotto solo se fa diminuire i prezzi e i salari nominali (un compito piuttosto ostico per qualsiasi governo). L’uscita di un paese dalla moneta unica europea produce anche effetti sistemici. Se l’euro non è più irreversibile, si può cominciare a scommettere su chi sarà il prossimo paese a uscire; e la speculazione dei mercati finanziari internazionali è molto brava a far sì che scommesse del genere si realizzino. 

*Docente di Macroeconomia e Istituzioni di economia presso La Sapienza Università di Roma