Pubblichiamo una serie di nostri articoli "best of 2012", tra quelli che ci sono piaciuti di più o ci sono sembrati significativi.
 
Hebron (Cisgiordania). La storia di Hashem Azzeh e della sua famiglia è la storia di Hebron. Camminare con Hashem intorno alla sua casa ormai blindata fa capire cosa significa occupazione militare. La famiglia Azzeh vive in Shuhada Street, la principale via della Città Vecchia di Hebron, chiusa dal 2000 per ordine israeliano e vietata al transito dei palestinesi, a eccezione dei pochi che vi risiedono ancora. È il caso degli Azzeh, testardamente rimasti nella loro villetta a due piani circondata da coloni e coi soldati appostati nella torretta sul tetto.

La situazione di Hebron (Al Khalil, in arabo) è unica: la città che ospita la Tomba di Abramo – profeta per cristiani, ebrei e musulmani – era il cuore economico della Cisgiordania. Dopo il massacro del 1994 nella moschea di Abramo, quando il fanatico israeliano Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi durante la preghiera del mattino, il Protocollo di Hebron, che faceva parte degli accordi di Oslo del ‘94, ha diviso la città in due: H1, sotto controllo militare e civile palestinese, e H2, sotto quello israeliano. Un caso senza eguali in tutta la Cisgiordania. Hebron è stata una delle forze economiche trainanti in Cisgiordania, nel settore manifatturiero e tessile. Proprio il ruolo economico e religioso della città l’hanno trasformata in uno dei principali nodi strategici dell’occupazione israeliana.

E la Città Vecchia, cuore della vita sociale ed economica palestinese, è divenuta una “città fantasma”: ormai vuote oltre 1000 abitazioni palestinesi, il 41,9 per cento del totale, e centinaia i negozi palestinesi chiusi e mai riaperti. Al loro posto vivono 500 israeliani divisi in 5 colonie all’interno della città, protetti da oltre 2 mila soldati.

Nella Città Vecchia i palestinesi hanno montato delle reti per proteggere passanti e negozi al pianterreno da pietre, rifiuti, bottiglie lanciati dai coloni che hanno occupato gli appartamenti ai piani superiori. “Dal 1984 – racconta Hashem Azzeh – la nostra casa è sovrastata dalla colonia di Ramati Shai dove vivono 35 famiglie israeliane, tra cui quella di Baruch Marzel, leader della Jewish Defence League, uno dei coloni più estremisti. Da allora l’esercito ci impedisce di utilizzare l’originario ingresso alla nostra abitazione che si affaccia sulla strada principale. Per arrivarci siamo costretti a utilizzare minuscole stradine sterrate”. Le percorriamo con lui arrampicandoci tra rocce e arbusti e finalmente arriviamo di fronte alla casa. “Nel 2007 avevano chiuso anche questo accesso – continua Hashem – e per raggiungere la casa dovevamo scavalcare il muro, alto 6 metri. Quando mia moglie era incinta, ho dovuta prenderla in spalla. La settimana scorsa mio figlio di 5 anni, per paura dei coloni che lo inseguivano, si è arrampicato sul muro, è caduto e si è rotto una spalla”. In genere gli attacchi più violenti si verificano di sabato: la famiglia Azzeh evita di uscire e di avvicinarsi all’uliveto perché dall’alto i coloni lanciano di tutto, “una volta anche una lavatrice”, racconta Hashem mostrando l’elettrodomestico nel giardino. “Più volte hanno avvelenato gli ulivi e le viti e hanno tagliato i nostri alberi da frutto”.

Incontriamo Yousef, il nipote 15enne di Hashem. Sulle spalle ha una bombola del gas vuota da portare in H1, a quasi un chilometro di distanza, per poterla ricaricare. “Quando avevo 10 anni mi hanno catturato – racconta –. Stavo giocando in cortile, i coloni sono arrivati e mi hanno ficcato una pietra in bocca. Mi hanno dato un pugno e mi hanno rotto i denti”. “Hanno aggredito anche mia moglie – aggiunge Hashem –. Per due volte ha perso il bambino che portava in grembo a causa dei pestaggi subiti. Hanno picchiato anche me. L’ultima volta sono entrati in casa e hanno distrutto mobili, tv, elettrodomestici”. Arrestato innumerevoli volte dall’esercito israeliano, Hashem ha trascorso quasi 10 anni in prigione. Ma la battaglia che sta conducendo da decenni per la sua famiglia non cessa: “Resterò nella mia casa fino a quando non saremo liberi e non avremo indietro la nostra Palestina”.

Prima della divisione Shuhada Street era la via più importante di Hebron, e collegava i quartieri centrali della città con quelli a Nord e a Sud. Qui si affacciavano decine di negozi e scuole, e qui avevano sede i servizi più importanti e vitali, dalla stazione dei bus a quella dei taxi, dal mercato di frutta e verdura ai mulini per il grano. A Hebron c’è chi tenta ora di ricostruire la città e strapparla alla colonizzazione. È quello che fa l’Hebron Rehabilitation Committee (Hrc), organizzazione nata nel 1996 su iniziativa dell’Autorità Palestinese a seguito del Protocollo di Hebron. “All’epoca – spiega Walid Abu-Alhalaweh, direttore delle relazioni pubbliche dell’Hrc – il presidente Yasser Arafat decise di salvaguardare l’eredità culturale e architettonica di Hebron, in particolare della Città Vecchia. Così è nato l’Hrc”. “Le statistiche raccolte in questi anni – continua Walid – mostrano il lavoro che il Comitato sta svolgendo: prima della divisione i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano circa 10 mila.

Nel 1997 il 96 per cento dei palestinesi ha abbandonato l’area”. “Lo scopo finale del governo di Tel Aviv – aggiunge Walid – è occupare totalmente Hebron. Per farlo segue tre fasi: la prima, stabilire colonie dentro la Città Vecchia; la seconda, creare vie di comunicazione dirette tra le colonie; la terza, ora in atto, creare continuità tra le colonie stesse, attraverso il collegamento spaziale degli edifici occupati”. Un’attività continua a cui l’Hrc reagisce ristrutturando le abitazioni distrutte dall’esercito durante la Seconda Intifada e quelle abbandonate dai residenti originari. È questo il modo per convincere la popolazione palestinese a tornare nella Città Vecchia. In oltre 10 anni sono tornate 6 mila persone e gli appartamenti di nuovo abitati sono 950. L’Hrc, inoltre, si occupa di pagare le tasse, le bollette dell’acqua, l’assicurazione sanitaria e il restauro dell’abitazione. “Solo una cosa non possiamo garantire – ammette Walid –: la sicurezza. Ma riappropriarci della nostra città significa ricominciare a vivere e reagire alle violenze con cui l’occupazione tenta di strangolarci”.

A finanziare l’Hrc è l’Autorità Palestinese, ma non solo. I numerosi progetti sono sponsorizzati dall’Onu, dalla Banca Mondiale e dai governi di Spagna, Svezia, Germania, Norvegia, Canada, Gran Bretagna, Polonia, Austria e Irlanda. Con il denaro raccolto il Comitato riabilita anche strade e piazze, cliniche, scuole, oltre a e ricostruire la rete idrica e quella elettrica, così da ricreare spazi commerciali e sociali. Mohammed, 32 anni, è uno degli hebroniti che sono tornati a vivere in Shuhada Street grazie all’Hrc. Saliamo sul tetto della sua casa, situata a una manciata di metri dal checkpoint che divide la Moschea di Abramo dal resto della Città Vecchia. “Questa casa – racconta Mohammed – era stata quasi del tutto distrutta nei primi anni della Seconda Intifada. L’Hrc l’ha restaurata nel 2006”.

Sull’altro lato della via sorge il Gutnick Center, centro culturale ebraico che ospita negozi e ristoranti, la cui costruzione è stata finanziata con una pioggia di denaro dal magnate australiano ebreo Joseph Gutnick. “Il Centro ha tentato di comprare la nostra casa – prosegue Mohammed –. A mio padre hanno offerto 100 milioni di dollari: avrebbero sborsato tanto, gli hanno detto, perché ‘è una terra che fa parte del loro paese e della loro storia’. Mio padre non ha accettato: questa è la nostra terra e la patria non si vende”. A Hebron l’occupazione militare ha provocato il collasso delle attività economiche palestinesi. “Dalla Seconda Intifada in poi – spiega Hisham Al Sharabati, membro dell’associazione Youth Against Settlements – ben 520 negozi della Città Vecchia sono stati chiusi per ordine militare e mai riaperti. ‘Motivi di sicurezza’, è la spiegazione comunemente data dalle autorità israeliane”. Oltre 1000 negozi sono stati invece abbandonati dai proprietari per mancanza di clienti.

“La gente – spiega Hisham – non riesce a raggiungere le attività commerciali a causa dei 101 diversi blocchi: reti elettrificate, muri, blocchi stradali, checkpoint”. Eppure alcune donne hanno deciso non solo di sfidare e autorità militari israeliane ma anche di estendere la sfida alla cultura maschio-centrica palestinese. Nel loro piccolo negozio nel cuore della Città Vecchia, Nawal e Leihla Slemiah accolgono ogni giorno i visitatori con un ottimo tè alla menta, vendono artigianato locale, manifatture, borse, sciarpe, cuscini. A produrli sono le mani di circa 120 donne palestinesi dei villaggi nelle colline a Sud di Hebron. Nawal e Leihla hanno creato la prima e finora unica cooperativa di donne nell’area, Women in Hebron.

“L’idea è nata 8 anni fa – racconta Leihla –. Mia sorella ha cominciato a produrre piccoli oggetti di artigianato e borse e a venderle davanti alla Moschea di Abramo. Poco dopo, la polizia palestinese le ha offerto un piccolo negozio: il primo giorno ha incassato 100 shekel (circa 20 euro, ndr): un sogno”. “Non è facile per una donna lavorare da sola nel mercato di Hebron”, ammette Leihla. Eppure gli ostacoli da parte degli altri negozianti dell’area sono stati superati grazie dalla notorietà che in breve la cooperativa si è guadagnata. Sono tanti i gruppi internazionali che vengono qui a fare scorta di souvenir. Negli anni la cooperativa è cresciuta e si è aperta a nuove donne, diventando sia una fonte di guadagno sia uno strumento di emancipazione: “L’obiettivo di Women in Hebron è portare le donne fuori casa e dare loro un lavoro che le renda indipendenti dal salario del marito”, sostiene Leihla. Un obiettivo importante se si tiene conto del fatto che solo il 14,9 per cento delle donne palestinesi di Gaza e Cisgiordania (dati del Palestinian Central Bureau of Statistic, anno 2010) è inserito nel mercato del lavoro.

(prima pubblicazione: 9 agosto 2012)