Aumentano gli infortuni sul lavoro: in nove mesi ci sono stati 769 morti, con una crescita del 2,1%. Da gennaio, poi, sono state presentate circa 472.000 denunce, 594 casi in più rispetto allo stesso periodo del 2016. I dati recentemente diffusi dall'Inail raccontano di una vera e propria strage che sembra non doversi arrestare mai. “Il dato più inquietante, però, è che questa tendenza negativa avviene in presenza di una seppur timida ripresa dell'economia. Nel momento in cui riparte il sistema produttivo, insomma, aumentano anche gli infortuni”. A dirlo, ai microfoni di RadioArticolo1 è Franco Martini, segretario confederale della Cgil.

Questo - continua Martini - significa che la ripresa economica non contiene quel salto di innovazione sul quale abbiamo discusso in tutti questi mesi. È una ripresa rivolta all'indietro, che guarda al passato. Tanto che anche la tipologia degli infortuni mortali registrati conferma questa tendenza. Nei settori più colpiti dagli incidenti si continua a morire esattamente come si moriva mezzo secolo fa. Come nel caso delle cadute dall'alto in edilizia, e del ribaltamento dei mezzi di lavoro in agricoltura. Quindi l'economia riparte senza la spinta al cambiamento di cui avrebbe bisogno”.

I dati sugli infortuni, quindi, sono un sintomo di una ripresa timida, ma soprattutto basata sulla svalorizzazione del lavoro e dei lavoratori. “Un tempo - afferma il sindacalista - questo fenomeno si definiva in maniera molto semplice come sfruttamento. In realtà, se aumentano gli infortuni e la massa delle ore lavorate vuol dire che aumenta lo sfruttamento di chi è a lavorare. Del resto, a fronte di una riduzione del monte ore di lavoro complessivo, c'è un'intensificazione dell'orario di lavoro per coloro che sono occupati, visto che le imprese chiedono continuamente un aumento dell'orario di lavoro a parità salariale”. È quindi del tutto evidente che “il rischio aumenta, così come aumentano anche nuovi fattori di rischio che sono legati ai processi di trasformazione del sistema produttivo. Il problema vero è che la ripresa avviene esattamente con gli stessi paradigmi del passato, che sono quelli che invece dobbiamo cambiare”.

Dal punto di vista macroeconomico, però, un'economia che si fonda su un lavoro di scarsa qualità, secondo Martini “non porta da nessuna parte”. Ed è anche in grave contraddizione con tutta la discussione che “da mesi è aperta nel paese sull'economia 4.0, e cioè sulle grandi trasformazioni che in realtà dovrebbero essere la leva fondamentale per il salto di produttività dell'economia”.

Il dibattito in corso sull'innovazione tecnologica - conclude il segretario confederale della Cgil - ci dice che nelle sfide che ci attendono occorre invece un forte investimento sul fattore lavoro, in termini di formazione e cioè di capacità di acquisire nuove competenze. Tutto questo, invece, in Italia non c'è. C'è uno scarto abissale tra i dibattiti della convegnistica e la realtà. In questo periodo, tra l'altro, stiamo facendo un lavoro di raccolta e di approfondimento degli accordi di secondo livello, a cominciare da quelli che godono della detassazione, per capire quanti e quali contenuti qualitativi ci sono, anche in termini di investimenti per la formazione. Il sospetto che abbiamo, però, è che nella strategia della gran parte dell'impresa italiana manchi proprio la volontà di innovare.”