La notizia è recentissima: in Germania i lavoratori del pubblico impiego hanno appena ottenuto un aumento del salario del 4 per cento, ben oltre il tasso d’inflazione. In Italia i contratti dei lavoratori della scuola e di tutto il comparto pubblico sono fermi da sette anni, con relativo blocco degli stipendi. “In compenso” è in rampa di lancio la “buona scuola” del governo Renzi. Che però, come dimostra il fallimento – e successivo occultamento – della consultazione online, alla stragrande maggioranza di chi nella scuola opera non piace. La grande manifestazione romana del 18 aprile – organizzata da Flc Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals Confasl e Gilda Unams – giunge al culmine di tante iniziative e mobilitazioni assai partecipate (l’ultima delle quali è stata lo sciopero delle attività aggiuntive dal 9 al 18 aprile) e ha un obiettivo ambizioso: provare a far cambiare idea al governo.

L’evento di piazza degli Apostoli tiene insieme le fila di una serie di rivendicazioni cresciute negli anni e rispetto alle quali il governo ha scelto una strategia ben precisa:
nessun ascolto e tanto meno confronto, nella presunzione che la partecipazione sia un intralcio, un’inutile perdita di tempo. Quando invece, come è noto, è vero il contrario: il “decisionismo”, infatti, non solo è poco democratico ma è anche inefficace. Si può anche approvare un disegno di legge forzando il Parlamento, ma poi farlo vivere in un mondo complesso come quello della scuola, in cui così tanti e differenziati soggetti e “interessi” si intrecciano, è un’altra storia.

L’ultimo tassello di questa strategia “monocratica” è stata la decisione dei partiti di maggioranza di non stralciare dal ddl sulla “buona scuola” la parte relativa all’immissione in ruolo dei precari. Per quanto giudicata dai sindacati assolutamente insufficiente, pare soncertante negare a tanti precari la possibilità di entrare in ruolo dal prossimo settembre – e a studenti e famiglie di avere qualche certezza in più –, se il Parlamento non approva così com’è l’intero disegno di legge. Il prendere o lasciare, che già vediamo all’opera nella discussione sulle riforme costituzionali ed elettorali, sembra il tratto distintivo del modo di agire dell’esecutivo in carica. Poi, naturalmente, c’è il merito: i sindacati, anche alla luce della recente sentenza della Corte di giustizia europea, chiedono un piano pluriennale straordinario di assunzioni rivolto a tutti i lavoratori impiegati con 36 mesi di servizio (compreso il personale Ata, totalmente assente dal ddl), che non sono presenti nelle graduatorie a esaurimento, ma disseminati in tutti i rivoli che la mancanza di una seria politica di reclutamento ha alimentato negli ultimi decenni. Personale che, con le nuove norme, rischiano di essere tagliati fuori per sempre da un lavoro che svolgono ininterrottamente anche da 10-15 anni.

Tuttavia si sbaglierebbe a sottovalutare la strategia complessiva delle azioni che il governo mette in campo sulla scuola. Coerentemente al blocco dei contratti, sancito dal mancato stanziamento di risorse adeguate nel Def, è tutto l’impianto della “buona scuola” a nascondere un’idea, anzi un’ideologia, autoritaria dell’istruzione
, a partire dalla sottovalutazione delle competenze degli organi collegiali nell’organizzazione dell’offerta formativa. In più nell’articolato è presente una concezione vecchia del merito, tutta individuale, competitiva e premiata con qualche spicciolo dal preside-capo, anche con alcune gravi forzature in tema di autonomia. Qualcuno, provocatoriamente ma non troppo, ha parlato di “preside-sindaco" che per la prima volta avrebbe un elevato potere anche in materia di assunzione del personale. Risponde a un disegno autoritario anche il fatto che i provvedimenti attuativi del ddl potranno fare a meno dei pareri obbligatori degli organi consultivi, il che è paradossale, visto che siamo alla vigilia del voto con il quale il 28 aprile un milione di lavoratori eleggeranno il Cspi, l’organo consultivo nazionale in materia d’istruzione.

Pare difficile, a questo punto, in mancanza di ascolto evitare uno sciopero generale della scuola. D’altro canto, la piazza romana è altamente rappresentativa: le cinque sigle che hanno organizzato la manifestazione, infatti, rappresentano il 90 per cento di tutti i componenti delle Rsu appena rinnovate nel comparto. Se il governo vuole davvero coinvolgere e far partecipare, nel rispetto dell’effettiva rappresentatività di questo mondo, è giunto il momento di farlo.