La settimana scorsa, a Sciara, in provincia di Palermo, la Cgil siciliana ha ricordato il capolega Salvatore Carnevale, assassinato dalla mafia il 16 maggio 1955. Quando cadde sulla trazzera, crivellato da sei colpi di lupara, il sindacalista non aveva ancora compiuto trent’anni. Era nato a Galati Mamertino, in provincia di Messina, il 25 settembre 1925, da Giacomo Carnevale e Francesca Serio. A Sciara si trasferì piccolissimo insieme alla madre, separata dal marito. Il feudo Notarbartolo Nel 1951, con un gruppo di contadini, aveva fondato la sezione socialista e la Camera del lavoro del paese. E subito cominciò a battersi per l’applicazione della riforma agraria e la divisione dei prodotti della terra a 60 e 40 (60% al contadino e 40% al padrone), ottenendo i primi risultati positivi. Una cosa inaudita per i gabelloti e i campieri della principessa Notarbartolo, che fino ad allora erano riusciti a tenere Sciara fuori dalle lotte contadine della Sicilia centro-occidentale. E, sull’onda dei primi successi, ad ottobre organizzò l’occupazione simbolica del feudo della principessa, ma fu arrestato insieme a tre suoi compagni. Scarcerato dopo dieci giorni, ma rinviato a giudizio, dovette aspettare l’estate del 1954 per essere assolto.

Nel frattempo il movimento contadino era cresciuto, fino a ottenere due decreti di scorporo delle terre del feudo eccedenti i 200 ettari: il primo del 21 luglio 1952, l’altro il 16 marzo 1954. Dai primi di agosto del 1952, però, il giovane sindacalista fu costretto ad andar via da Sciara, per “rifugiarsi” a Montevarchi, in provincia di Arezzo. Probabilmente, per sfuggire alla feroce mafia di Caccamo. Oppure perché temeva una dura condanna al processo per l’occupazione del feudo Notarbartolo. Tornò a Sciara due anni dopo, e subito diede impulso a nuove lotte per chiedere l’assegnazione della terra ai contadini (dei 704 ettari scorporati, infatti, ne erano stati assegnati appena 202), occupando nuovamente il feudo Notarbartolo.

Ancora una volta fu minacciato dai mafiosi, denunciato dalle autorità e condannato a due mesi di carcere con la sospensione condizionale della pena. Rimasto disoccupato, inaspettatamente, gli fu offerto un posto di lavoro nella cava Lambertini. Carnevale accettò e il 29 aprile 1955 cominciò a lavorare. Ma anche qui continuò la sua attività sindacale, organizzando gli operai per rivendicare il diritto alle otto ore lavorative. “Se ammazzano me ammazzano Cristo!” La sera del 10 o dell’11 maggio, un emissario della mafia gli disse: “Lascia stare tutto e avrai di che vivere senza lavorare. Non ti illudere, perché se insisti, finisci per riempire una fossa”. “Se ammazzano me, ammazzano Cristo!”, rispose Carnevale, che, a scanso d’equivoci, il 12 maggio proclamò lo sciopero dei cavatori per il rispetto dell’orario di lavoro e il pagamento del salario di aprile. All’iniziativa aderirono trenta dei sessantadue operai: un successo. Allora piombarono alla cava il maresciallo dei carabinieri Dante Pierangeli e il mafioso Nino Mangiafridda. “Tu sei il veleno dei lavoratori!”, gli disse il maresciallo. E il mafioso: “Picca nn’hai di sta malantrinaria!”.

Salvatore Carnevale fu assassinato la mattina del 16 maggio 1955, mentre si stava recando a piedi sul posto di lavoro. Qualche ora dopo, di corsa e col cuore in gola, mamma Francesca si recò sul luogo del delitto, abbraccio il figlio e gridò: “Me l’hanno ammazzato perché difendeva tutti i lavoratori, il figlio mio, il sangue mio! Gli assassini bisogna cercarli tra gli amici e i dipendenti della principessa Notarbartolo!”. Il processo di primo grado si svolse a S. Maria Capua Vetere e si concluse con la condanna all’ergastolo dei quattro imputati: Giorgio Panzeca, Luigi Tardibuono, Antonino Mangiafridda e Giovanni Di Bella. Ma il processo d’appello e quello in Cassazione avrebbero ribaltato la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove. Mamma Carnevale disse: “Me l’hanno ammazzato una seconda volta!”.

Salvatore Carnevale è uno dei tanti caduti del movimento contadino siciliano che, a partire dai Fasci di fine 800 e fino al secondo dopoguerra, si è battuto per liberare l’isola dall’oppressione della mafia e dei grossi latifondisti e per creare migliori condizioni di vita e di lavoro per le masse popolari. Fino a qualche decennio fa, i contadini e i loro dirigenti sembravano sconfitti e dimenticati. Invece, grazie alla Cgil e ad alcune associazioni come Libera e Arci, a partire dalla metà degli anni 90 c’è stata un recupero della memoria di quelle lotte e dei suoi caduti, fondamentale per l’avvio di una nuova e concreta antimafia sociale. Decisive, al riguardo, sono state la legge Rognoni-La Torre, che ha consentito di confiscare alla mafia i beni di provenienza illecita, e la legge 109/96, che ha reso possibile la riutilizzazione sociale dei beni confiscati. Quest’ultima, in particolare, ha consentito la nascita di cooperative sociali, alle quali i comuni hanno assegnato centinaia di ettari di terra, dove fino a qualche anno fa scorrazzavano indisturbati feroci boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano.

In questo modo, decine di giovani contadini siciliani hanno potuto avere un lavoro dignitoso e una giusta retribuzione, riuscendo a produrre beni alimentari biologici, come il grano, la pasta, il pomodoro, l’olio, la passata e le lenticchie, che possiedono una vitamina in più: la vitamina “L” della Legalità. Oggi, per certi versi, i giovani di queste cooperative (la “Placido Rizzotto”, la “Pio La Torre”, la “Lavoro e Non Solo” e altre) rappresentano gli eredi più autentici del movimento contadino siciliano e dei suoi martiri, tra cui Salvatore Carnevale, Placido Rizzotto, Calogero Cangelosi, Epifanio Li Puma, Accursio Miraglia e molti altri. L’antimafia sociale che essi praticano, fondata su interessi concreti e legittimi (contrapposti agli interessi illegittimi della mafia), è molto simile a quella del movimento contadino del secolo scorso. Per questo sono sostenuti senza riserve dalla Cgil. Insieme all’antimafia etica di tante associazioni della società civile, nate dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, rappresenta un notevole arricchimento del fronte antimafia. E i campi di lavoro nazionali e internazionali sui terreni confiscati alle mafie, che vedono ogni estate migliaia di ragazze e ragazzi scegliere di faticare e sudare sotto il sole di Sicilia, accanto ai soci lavoratori delle coop sociali, ne rappresentano un’efficace sintesi.

*  Segretario della Camera del lavoro di Corleone