Già dalla conferenza stampa del 12 marzo il premier Matteo Renzi, nell'annuncio del suo piano, aveva incluso i soli lavoratori dipendenti e assimilati tra i beneficiari della restituzione fiscale, i famosi “80 euro”. L'esclusione di autonomi, incapienti e pensionati è stata giustificata sin dal nome del capitolo di interventi, ovvero “riduzione del cuneo”; se con questa espressione definiamo la differenza tra la spesa complessiva del datore di lavoro per un dipendente e quanto incassato, netto, dal lavoratore, è chiaro che chi non ha un datore di lavoro (pensionati e autonomi) e chi ha il lordo (fiscale) che corrisponde al netto in busta non possono rientrarvi.

Posto che è contestabile l'inclusione delle ritenute fiscali personali nel concetto di cuneo, visto che il datore di lavoro è solo “esattore per lo Stato”, siamo convinti che il principio del provvedimento sia corretto, specie se gli 80 euro mensili vengono intesi non solo come riduzione del cuneo, ma, stando alle parole pronunciate dallo stesso premier in conferenza stampa, come una restituzione agli italiani di “qualcosa di loro proprietà”, quindi come una restituzione del potere d'acquisto perso negli anni della crisi dai salari. Non solo. Il documento allegato al Def pone l'accento anche sugli effetti moltiplicatori, cioè sull'effetto macroeconomico che produce una tale massa di denaro distribuita a una platea così ampia.

Distribuendo circa 1.000 euro annui a lavoratori con reddito medio-basso, ovvero a consumatori che si presume non trasformeranno quel reddito in risparmio, ma lo spenderebbero immediatamente in beni e servizi, l'effetto sul Pil sarà pari a un aumento dello 0,1 per cento nel 2014, 0,3 nel 2015, 0,4 nel 2015. Un altro degli effetti sarà l'aumento dell'occupazione, dice il Def, dello 0,1 per cento nel 2015, 0,2 nel 2016, per arrivare fino allo 0,6 del 2018. Alla luce di questi effetti diventa ancora più incomprensibile l'esclusione dei pensionati a reddito medio-basso dai beneficiari della restituzione. La propensione marginale al consumo deriva dal reddito complessivo, e nella fascia che parte dall'incapienza e arriva fino ai 26.000 euro sono presenti circa 8 milioni di pensionati (Dipartimento delle Finanze), il che significa che un investimento anche minore di quello speso per la restituzione ai dipendenti, causerebbe effetti benefici per il sistema. Il tutto senza considerare la giustizia insita nell'inclusione dei pensionati tra i destinatari del provvedimento.

Le pensioni, anche quelle medie, dal 2012 hanno sofferto il blocco delle rivalutazioni, aggravando difficoltà (comuni per tutti i redditi fissi, ma particolarmente acute per le pensioni) che da tempo, anche prima della crisi, si manifestavano; a causa della mancata crescita dei salari, che si ripercuote anche sulle pensioni, a causa del sistema della perequazione della pensioni, che – secondo uno studio dello Spi Cgil – dal 2000 al 2008 avrebbe fatto perdere a una pensione di 1.000 euro circa 3.700 euro rispetto alla dinamica salariale, e a causa anche del fiscal drag, cioè della tassazione maggiorata derivante dall'inflazione, i redditi da pensione si sono visti erodere il proprio potere d'acquisto come mai in passato era accaduto.

Va ricordato inoltre che i pensionati hanno mediamente un reddito inferiore dei dipendenti (nel 2012 15.780 euro annui, contro i comunque bassi 20.280 euro annui dei redditi da lavoro dipendente) e secondo l'Istat, nel 2012, il 42,6 per cento dei pensionati ha percepito meno di 1.000 euro al mese. Con queste caratteristiche i pensionati (loro malgrado) sono portatori di una propensione marginale al consumo assai elevata. Anche ipotizzando un provvedimento che preveda una spesa inferiore per i pensionati rispetto ai dipendenti, commisurata alle differenti spese di produzione del reddito (mobilità, formazione ecc.), diciamo anche solo della metà dell'importo complessivo, che corrisponderebbe a un aumento di circa 45 euro al mese, non solo migliorerebbero le condizioni di vita e aumenterebbe la fiducia per molte famiglie di pensionati e anziani soli, ma l'effetto moltiplicatore provocherebbe un aumento del Pil dello 0,6 per cento nel 2016 e un aumento dell'occupazione che, secondo il modello del Mef, potrebbe arrivare a un punto nei prossimi 4 anni.

Insomma, un'estensione del bonus ai pensionati non farebbe solo il loro bene, ma ricadrebbe anche sugli attivi, perché generatore di nuova domanda e quindi di occupazione. Certamente tale intervento avrebbe bisogno di coperture, poiché date le regole europee non è possibile prevedere di ripagare un taglio Irpef attraverso i suoi effetti indotti. Di fatto, tuttavia, e anche le tabelle del Mef indirettamente lo confermano, gli effetti a cascata nel triennio ripagherebbero le coperture iniziali, che di fatto servirebbero esclusivamente come impulso.

Va ribadito che per la Cgil il modo migliore di agire sulla domanda, in questa fase, deve solo parzialmente essere affidato a una restituzione fiscale, comunque necessaria e richiesta da tempo unitariamente con Cisl e Uil, ma deve essere basato su creazione diretta di occupazione pubblica e di domanda pubblica per orientare anche l'offerta verso settori innovativi e ad alto valore aggiunto. Pur riconoscendo l'importanza di restituire potere d'acquisto a salari a pensioni, la via maestra per uscire dalla crisi resta il Piano del lavoro presentato nel 2013 alla conferenza di programma.

Discorso a parte deve essere fatto per gli incapienti, cioè coloro la cui imposta lorda è inferiore alle detrazioni perché percettori di un reddito troppo basso. Renzi si è impegnato, senza fornire date certe, a occuparsi anche di questa categoria, ma alcune dichiarazioni fanno pensare che, anche in questo caso, ci si occuperà dei lavoratori dipendenti incapienti (circa 4 milioni), e nulla sarà fatto per i pensionati incapienti, che dai dati del Dipartimento delle Finanze risultano essere circa 3 milioni. All'interno di questi 3 milioni di persone troviamo tutti i pensionati al minimo, persone in condizione di estrema fragilità, visto che già a monte, già nella richiesta del loro trattamento pensionistico hanno dovuto dimostrare di trovarsi in condizione di indigenza, e di appartenere a un nucleo familiare a basso reddito.

Per non parlare dei percettori di assegno sociale o pensioni di invalidità. È davvero impossibile pensare che un bonus elargito a queste categorie non si tramuti in consumo, quindi in aumento della domanda, con annessi effetti moltiplicatori. In merito agli incapienti, tuttavia, è bene fare una riflessione. L'aiuto a queste persone indigenti, lavoratori o pensionati che siano, può certamente essere costituito da importi monetari, ma potrebbe essere utile pensarlo anche in termini di servizi, prestazioni sociali e sanitarie, trasporto pubblico, welfare locale, politiche abitative ecc.

Stiamo dicendo che il necessario sostegno alla povertà non deve necessariamente essere costituito da un bonus e da una restituzione di imposte (in realtà non pagate), ma invece può tradursi in un orientamento diverso della spesa pubblica in servizi efficienti, socialità, cura della persona, capitoli che non a caso costituiscono una parte importante dei progetti che potrebbero essere sviluppati nel Piano del lavoro.

*Area politiche per lo sviluppo, dipartimento politiche economiche Cgil Nazionale