In vista delle elezioni si sta imponendo con decisione il dibattito sul tema delle politiche fiscali, in particolare su quello delle imposte sui redditi. Diverse forze politiche che raccolgono anche un consenso notevole nel Paese sembrano aver virato (o essere tornate) sulla flat tax, ovvero sul superamento delle aliquote progressive per passare a un’aliquota unica da applicarsi a tutti i contribuenti, a prescindere dal reddito. La proposta è tornata in auge qualche mese fa grazie alla proposta dell’Istituto Bruno Leoni, think tank di impostazione liberista, il quale ha ipotizzato un’aliquota unica al 25%.

Crediamo che occorra evitare di concentrarsi sui profili di costituzionalità.  La deduzione che accompagna tutte le proposte di flat tax, tra l’altro, rende progressiva la tassazione sul reddito lordo, anche se con un grado minimo. Anche sui redditi elevati la progressività, pur impercettibile, è teoricamente presente. Il dubbio sulla costituzionalità rimane, ma resta il fatto che le principali obiezioni che vanno mosse a questa proposta sono di merito più che di diritto.

Uno dei benefici attesi che si adducono a sostegno della proposta è la semplificazione del sistema. Crediamo invece che con gli attuali strumenti informatici non sia necessaria un’aliquota unica per raggiungere questo scopo. È demagogico, sbagliato, e finanche ridicolo pensare che “semplice” debba significare “calcolabile a penna con una moltiplicazione”. Si pensi per completezza che il sistema tedesco, solo per fare un esempio, contempla un’aliquota “personalizzata” in funzione di alcune variabili. Non per questo il sistema tributario della Germania è considerato complicato.

Soprattutto, crediamo che se semplificare significa trattare in modo uguale situazioni diverse, allora non è detto che la semplificazione sia un obiettivo da perseguire. Davvero è positivo tassare allo stesso modo chi affitta a canone concordato e chi affitta a canone libero? Davvero è auspicabile, sull’altare di questo malinteso concetto di semplificazione, applicare praticamente la stessa aliquota a chi in un anno guadagna 30 mila euro e a chi ne denuncia 300 mila (categoria in realtà rara, e per la gran parte composta da lavoratori dipendenti)?

In merito alla supposta grande diffusione della flat tax, e all’elenco di Paesi portati a dimostrazione del successo di questo modello, eviteremo di parlare di quelli rispetto ai quali non abbiamo sufficienti informazioni, come Abcasia, Sant’Elena o Tuvalu, per concentrarci sul modello Est europeo. Un modello che ha alle spalle una storia e condizioni di partenza assolutamente non paragonabili alle nostre e che, a nostro parere, è lungi dall’essere il nostro obiettivo. Non solo: laddove non abbia anche fruito di contributi Ue per ripartire, rimane un laboratorio di abbassamento dei diritti rispetto al modello europeo tradizionale e un’area di dumping e di ricatto per i lavoratori delle vecchie socialdemocrazie. In particolare, i Paesi orientali che sono nell’area dell’Unione stanno fungendo da traino all’abbassamento dei costi e dei diritti dei lavoratori di tutta l’area.

Peraltro, accanto a Paesi che hanno avuto un impatto limitato sui conti pubblici a seguito dell’introduzione dell’imposta piatta (anche perché accompagnata da taglio della spesa, o concomitante con il boom dei prodotti energetici e con una crescita sostenuta del Pil antecedente alla riforma fiscale), ci sono casi (Slovacchia) in cui si è dovuto correre ai ripari e reintrodurre un incremento del prelievo fiscale (in proposito, si veda focus su blog del Sole-24 Ore). Non c’è dubbio. Per un’Italia che deve uscire dal pantano della crisi, continuiamo a preferire la rincorsa al modello tedesco, francese, scandinavo, anziché verso il modello slovacco, rumeno o ungherese.

Le proposte di flat tax sono in genere accompagnate da una deduzione che dovrebbe costituire “minimo vitale” (nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni addirittura questo varia geograficamente, è quindi più alto al Nord e più basso al Sud), che sarebbe erogato direttamente in caso di incapienza (la cosiddetta negative income tax) e che, quindi, non incentiva la ricerca del lavoro, diventando, nella miglior tradizione liberista alla Von Hayek, una sorta di reddito di cittadinanza.

E, aggiungiamo, si persevera nel portare come argomentazione la formula chiamata “curva di Laffer”, mai dimostrata neanche dal suo inventore, per sostenere che l’evasione è alta a causa dell’alta pressione fiscale, quando invece è l’esatto opposto. La pressione fiscale è alta perché in troppi non pagano le imposte dovute. Che imposte più basse non assicurino maggiore fedeltà fiscale lo dimostra plasticamente il caso Apple, la cui corporate tax più bassa d’Europa (quella irlandese, al 12,5%) non è bastata a convincerla a pagare il dovuto (visto che ha provato a pagare lo 0,003%).

Dobbiamo poi sempre ricordare che le proporzioni dell’evasione fiscale italiana non sono, ahimè, nemmeno paragonabili a quelle degli altri Paesi sviluppati. Una parte degli evasori risulta incapiente, a volte nullatenente e finisce per fruire anche dei benefici destinati ai redditi bassi. Non saranno alcuni punti percentuali in meno a convincere evasori incalliti a iniziare a dichiarare il proprio reddito.

Per finire, le proposte di flat tax hanno un costo complessivo tra i 30 e i 40 miliardi, i quali si sostiene debbano essere coperti dalla spending review, ovvero dalla riduzione della spesa. Le proposte dei probabili candidati premier che stanno aderendo a questa idea non sono precise al riguardo, e si limitano a prevedere “risparmi di spesa” o a “tagliare le spese dello Stato”. A parte l’abuso che negli ultimi tempi si è fatto di questa revisione della spesa pubblica che pare essere diventata una panacea, sarebbe bene cominciare a interrogarsi seriamente su cosa sia e cosa significhi spesa pubblica. Si tratta di pensioni, stipendi per i vigili del fuoco, i poliziotti o i medici, funzionamento di scuole e ospedali, mantenimento dei beni pubblici.

Il vero progetto – che andrebbe spiegato con chiarezza – è che diminuire drasticamente le imposte e la spesa pubblica significa di fatto restringere il perimetro dell’intervento dello Stato. Abbassare il gettito fiscale vuol dire fornire meno risorse all’operatore pubblico, indebolirlo. L’azione dello Stato per limitare le diseguaglianze attraverso il welfare passa necessariamente attraverso le imposte incassate. Non è un caso se alcune proposte accompagnano l’introduzione dell’imposta piatta al taglio e alla parziale privatizzazione della sanità.

Questo nei fatti significa sanità pubblica (per i poveri) depauperata a causa dell’uscita dal sistema di finanziamento dei contribuenti facoltosi, i quali avrebbero più risorse per permettere a se stessi una sanità d’eccellenza e a pagamento. È fin troppo ovvio che si debba riorganizzare la spesa, ma dobbiamo tra le altre cose tenere conto del fatto che ridurre la spesa pubblica significa ridurre la domanda. Qualcuno davvero scommetterebbe che a inferiore domanda pubblica aumenterebbe la domanda privata per un importo uguale o superiore?

Chi invece propone di passare alla flat tax attraverso il ricorso al deficit non troverà in noi dei fan dell’austerità, ma, al netto dell’opposizione Ue che dovrebbe affrontare, sarebbe meglio che desse un’occhiata ai cosiddetti moltiplicatori, ovvero a quanto “renda” un euro di taglio delle imposte (peraltro generalizzato, anche per i ricchi con una bassa propensione marginale al consumo) e quale sia invece il moltiplicatore delle risorse destinate a investimenti. Ritenendolo una persona intelligente siamo certi che, dopo questo tipo di valutazione, destinerebbe le stesse risorse al Piano del lavoro.

Rimanendo invece in ambito fiscale, la Cgil propone una progressività ancora più accentuata rispetto a quella attuale, che non si limiti solo all’Irpef (imposta pagata in gran parte da lavoratori e pensionati), ma che investa in una riforma complessiva tutti i redditi, le rendite, il patrimonio, e sia accompagnata da una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale.

Cristian Perniciano è responsabile Politiche fiscali della Cgil nazionale