Lavoro autonomo: serve davvero un altro Jobs Act? E, soprattutto, di quale lavoro autonomo parliamo? Sono i quesiti che sorgono tra studiosi, sindacalisti e lavoratori a poche settimane dal varo, da parte del governo, di un ddl delega collegato alla legge di stabilità che punta a mettere la mani su un tema complesso e stratificato in Italia: sono infatti tre milioni, da noi, i professionisti a partita Iva, 300.000 dei quali iscritti alla “famigerata” gestione separata dell’Inps. Il provvedimento del governo è atteso dallo scorso anno, da quando cioè la l’esecutivo aveva – dopo un clamoroso passo falso – confermato l’aliquota agevolata Irpef al 15% per chi non supera i 30.000 euro di reddito l’anno e il blocco, ma per ora solo fino al 2016, dell’aliquota previdenziale al 27%. Rimanevano fuori misure di welfare, maternità, malattia che, secondo il governo, sarebbero finalmente entrate, appunto, in questo provvedimento.

Ma il risultato ottenuto è adeguato? Va subito detto che alcune delle misure contenute nel ddl sono quelle richieste dai sindacati e associazioni: la deducibilità al 100% delle spese per la formazione; i congedi parentali di 6 mesi fino a 3 anni di vita del bambino; la nullità delle clausole che stabiliscono pagamenti oltre 60 giorni e che danno la facoltà al committente di mutuare unilateralmente il contratto; la sospensione del pagamento dei contributi previdenziali in caso di malattia grave. Negativo, invece, il giudizio della Cgil sulla possibilità di percepire l'indennità di maternità lavorando (e dunque non perdendo la committenza): per il sindacato di corso d'Italia, infatti, "va affermato il principio della salvaguardia della lavoratrice e del nascituro attraverso un periodo minimo di astensione obbligatoria antecedente e successivo al parto". Può invece essere flessibile, attraverso la contrattazione collettiva, il periodo complessivo di astensione. 

L'inchiesta in podcast su RadioArticolo1

Secondo Paolo Terranova, presidente di Agenquadri Cgil, “il mondo del lavoro autonomo è un mondo fortemente disomogeneo. La necessità che abbiamo è quella di conciliare la tutela dell'autonomia delle partite Iva più forti sul mercato con quella, invece, della parte più debole di questo mondo. Ecco, per questa parte più fragile il Jobs Act del lavoro autonomo fa veramente poco”. Tra le criticità più forti segnalate dalla Cgil, va registrata “l’assenza di uno strumento di sostegno al reddito per i periodi di crisi, una previsione sui compensi minimi con riferimento ai costi contrattuali previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro dei lavoratori subordinati, i diritti sindacali e alla rappresentanza, le norme antidiscriminatorie, l’accesso al welfare contrattuale.

Lo spezzettamento del lavoro 
Ma il dubbio è anche nel contesto generale in cui questo provvedimento si iscrive, se letto insieme alle altre iniziative del governo in materia di lavoro: Jobs Act e riforma Madia. “In tutti e due questi casi è evidente una sorta di ‘insofferenza’ nei confronti della contrattazione collettiva che si tende a depotenziare in favore di rapporti di tipo individuale – argomenta Vincenzo Bavaro, docente di Diritto del lavoro all’università di Bari –. Sul versante del lavoro autonomo, si offre invece, con questa delega, qualche protezione in più. Ma bisogna vedere se il saldo complessivo è positivo. Secondo me no: la tendenza è quella che va sotto il solito slogan: togliere a chi ha un po’ di più, in questo caso ai lavoratori subordinati, per dare qualcosina a chi ha un po’ di meno”.

Il quadro complessivo è quello di un sistema che va sempre più verso contratti individuali

D’accordo Patrizio Di Nicola, che insegna Sociologia dell'organizzazione alla Sapienza Università di Roma: ”Anche io – spiega – resto colpito negativamente da questo spezzettamento del lavoro. Fermo restando che alcuni avanzamenti per i lavoratori autonomi ci sono, il quadro complessivo è quello di un sistema che va sempre più verso contratti di tipo individuale. Questo è molto evidente nella pubblica amministrazione, dove si assiste a un forte spostamento di potere verso la dirigenza, che in questi anni è stata anche fortemente incentivata mentre gli stipendi della generalità dei lavoratori rimanevano bloccati”. Bavaro insiste anche su un altro aspetto importante. E cioè su cosa si intende per lavoro autonomo.

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“L’articolo 1 del ddl – spiega – da questo punto di vista è chiaro. Il campo di applicazione è l’intero lavoro autonomo: ma questo universo è molto frammentato, sia nelle modalità di svolgimento della prestazione sia nella condizione reddituale. È un errore ‘trattare’ allo stesso modo un avvocato che ha un reddito di 150.000 euro e di un altro che arriva a 20.000 euro”. Il nodo è: cosa voglio andare a ‘proteggere’? Il tipo di rapporto – cioè la dipendenza o indipendenza economica da un datore di lavoro – o il basso livello reddituale? Sono scelte non chiare nel dispositivo e che comportano aspetti diversi: “Un conto sono i reticoli di protezione di welfare, come la maternità, la previdenza e la malattia, altro le tutele che attengono direttamente alla dimensione del rapporto contrattuale: il compenso, la rescissione del contratto”, spiega lo studioso.

E proprio per evitare questo spezzettamento così privo di insidie, per Terranova, l’approccio giusto per lavoro dipendente, pubblico e autonomo è quello della Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil che tiene insieme i diritti universali articolandoli nelle loro diversità specifiche. “L’esempio – dice il sindacalista – è quello degli ammortizzatori sociali. Se per un lavoratore dipendente abbiamo sempre immaginato indennità che intervengono in caso di perdita o sospensione temporanea del lavoro, per il lavoro autonomo questo schema non funziona: se si interviene in fase finale, l’attività professionale probabilmente è già chiusa, fallita. Il sostegno deve arrivare prima del fallimento. Cosa che però nella delega del governo non c’è”. E forse non è un caso: probabilmente questa mancanza tradisce un’idea un po’ ingenua del lavoratore autonomo come soggetto che sta liberamente sul mercato: se guadagna è bravo, mentre se va male non è bravo. Ma la realtà della maggior parte delle partite Iva, che arrivano a 1.000 euro facendo complicati equilibrismi per mettere insieme tanti committenti diversi, è evidentemente diversa.

I più deboli 
Giudizio negativo sulla delega arriva anche da Nidil Cgil. Che denuncia, oltre a tanti aspetti particolari (per esempio l’applicazione delle norme anche alle collaborazioni, che nelle dichiarazioni del governo sarebbero dovute sparire o la tutela piena, tra le malattie gravi, solo di quella oncologica) proprio quello già citato del compenso: “Lasciare al mercato la regolazione dei rapporti individuali di lavoro, qualsiasi essi siano – argomenta Simone Marinelli – e che però nella maggior parte dei casi generano redditi intorno ai 15-20.000 euro lordi che vanno poi decurtati di tasse e contributi. Anche alcune norme positive, per esempio quelle sui pagamenti entro 60 giorni, non offrono una tutela reale ai lavoratori: chi si può permettere 1.000 euro di avvocato per una fattura non pagata”?. Per Marinelli, per non lasciare la persona totalmente alla mercé del mercato “occorreva inserire all'interno del disegno di legge alcuni meccanismi di contrattazione collettiva, o, almeno, agganciare i compensi minimi a quelli stabiliti attualmente nei contratti collettivi di lavoro. Questo eviterebbe chiaramente anche il dumping contrattuale che permette all'impresa di scegliere tra lavoratore subordinato, lavoro autonomo o precario a seconda delle convenienze”.

Non si possono lasciare in balia del mercato lavoratori che guadagno 15.000 euro lordi l'anno

A raccontare cosa significa stare sempre in bilico, nella vita e nel lavoro, ci pensa Valentina Lillo, social media manager milanese. “Sono una partiva Iva vera – dice –. Lavoro in regime di quasi mono committenza, una situazione però complicata, visto che per 2.000 euro lordi al mese dovrei stare in ufficio tutti i giorni per otto ore. E senza alcuna garanzia perché se domani non mi si pagasse una fattura io non potrei certo permettermi un avvocato per intentare una causa. Quanto agli altri committenti, è un problema spesso con il committente principale, perché talvolta sono costretta ad assentarmi per andare da un altro cliente oppure a fare nel medesimo posto lavori diversi, magari con un accordo tacito che naturalmente non si può mettere per iscritto. Insomma, è una situazione sempre in bilico, costantemente nell’angoscia di perdere il lavoro e che scivola lentamente verso la condizione di finta partita Iva”. In questo contesto, attacca amareggiata Lillo, a 33 anni “in una città come Milano non posso permettermi una vita realmente normale. Fino allo scorso anno vivevo in una stanza doppia, come una studentessa. Ora ho trovato una sistemazione singola, ma con costi d’ingresso così alti che ho dovuto chiedere aiuto ai miei genitori”. Ecco, questo sembra davvero il pezzo importante che manca: una vera tutela per i lavoratori poveri in un mercato sempre più aggressivo e scorretto.

Chi resta fuori 
C’è, infine, un ultimo aspetto da segnalare. La mancanza all’interno dell’applicazione del ddl di figure importanti del lavoro autonomo come quelle degli agenti di commercio. “Trecentomila lavoratori fondamentali per il paese e per le aziende stesse che producono – osserva Danilo Lelli, della Filcams Cgil – ma che sono rimaste schiacciate dalla crisi e che avrebbero bisogno di sostegni fiscali, detrazioni e tutele che invece non hanno. Fare una legge sul lavoro autonomo e lasciarli fuori non ha davvero senso. Altra figura, per così dire, di confine tra tipologie contrattuali, è quella dei lavoratori praticanti degli studi professionali, in particolare quelli legali. “Sono soggetti particolari – aggiunge il sindacalista –. Quando finiscono la ‘pratica’ generalmente vogliono rimanere autonomi perché, se assunti come lavoratori subordinati, perderebbero la possibilità di esercitare la professione. Contemporaneamente, però, sono figure deboli sul mercato del lavoro. Per questo, in fase di rinnovo del ccnl di riferimento, stiamo discutendo con la controparte sulla possibilità di arrivare a un protocollo aggiuntivo. Tra gli aspetti importanti c’è quello dei minimi salariali che per noi dovrebbe tener conto di quanto previsto dal ccnl”. E tocchiamo qui un altro punto cruciale: per offrire giuste tutele a tutti i lavoratori, al di là delle tipologie con cui sono assunte, oltre alle leggi serve anche la contrattazione inclusiva.

 

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