Lavoro e pensione sono due cardini fondamentali, strettamente interconnessi, del nostro modello di organizzazione sociale: ogni individuo, col proprio lavoro, deve assicurarsi non solo il reddito corrente, ma anche un adeguato sostentamento per la vecchiaia. Viene allora da domandarsi quanto il modello di mercato del lavoro delineato dal Jobs Act sia coerente col sistema pensionistico contributivo introdotto dalla riforma del 1995.

Il principio contributivo prevede che lo stato restituisca come pensione i contributi versati dal lavoratore, rivalutati al tasso di crescita del Pil, divisi per la speranza di vita al momento del pensionamento. Per funzionare correttamente, esso richiede redditi adeguati, aliquote contributive elevate (attorno al corrente 33%, cui aggiungere, eventualmente, la contribuzione ai fondi pensione) e una lunga e ininterrotta storia lavorativa/contributiva. Altrimenti il rischio è di maturare, malgrado gli anni di contributi, una pensione non molto più alta dell’assegno sociale: ad esempio, ad un lavoratore che guadagni 1000 euro al mese occorreranno almeno 28 anni di contributi per maturare una pensione pari all’assegno sociale (fra 460 e 640 euro mensili), cui avrebbe comunque diritto.

Di fatto, il sistema contributivo presuppone una situazione nella quale la disoccupazione è scarsa o nulla e i lavoratori mantengono il proprio posto a vita, ovvero, se lo perdono, riescono a trovare in tempi brevi un’altra occupazione, con adeguato livello salariale, pienamente riconosciuto a livello contributivo. Non è certo lo scenario attuale del mercato del lavoro, caratterizzato da un’enorme disoccupazione diffusa, particolarmente fra i giovani, dalla proliferazione di figure lavorative deboli e da imprese che lamentano l’eccessivo onere fiscale e contributivo.

Da questo punto di vista, il Jobs Act non sembra segnare un’inversione di tendenza. Il permanere di una molteplicità di figure contrattuali precarie, l’introduzione di una nuova figura contrattuale nella quale per molte fattispecie il diritto al mantenimento del posto del lavoro è sostituito da un indennizzo monetario, la sostituzione del principio del mantenimento per quanto possibile dello status occupazionale con la tutela nella disoccupazione, delineano uno scenario nel quale da un lato aumentano le possibilità da parte del datore di lavoro di liberarsi della forza lavoro quando non ne ha bisogno, dall’altro il lavoratore dovrà, ancor più di oggi, confrontarsi con l’alternanza fra lavori diversi, intervallati da periodi di disoccupazione e di eventuale formazione.

In un contesto nel quale l’enfasi è posta sul contenimento del costo del lavoro, è evidente che si accentua la pressione al contenimento dei salari, mentre il mantenimento di aliquote contributive elevate come quelle attuali potrà risultare problematico e generare spinte a attingere a queste per sostenere i redditi correnti, anche a costo di peggiorare le prospettive pensionistiche dei lavoratori, come già fatto con l’introduzione, sia pure per un limitato periodo di tempo, della possibilità di trasferire in busta paga il TFR, anche laddove già destinato alla previdenza integrativa. Di fatto, malgrado l’aumento dell’età di pensionamento, il pericolo concreto è che tanto l’ammontare dei contributi quanto gli anni di contribuzione maturati dai lavoratori vadano a calare, anziché aumentare, minando l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche.

Per riportare a una maggiore coerenza mercato del lavoro e pensioni si possono ipotizzare due tipi di intervento. Il primo prevede di “compensare” l’incoerenza fra sistema pensionistico contributivo e lavoro discontinuo e precario con adeguati contributi figurativi, che dovrebbero coprire tutti i periodi di non lavoro, oltre che i periodi di studio e gli eventuali sgravi contributivi. Si tratta di estendere su una scala molto più ampia dell’attuale una serie di interventi in piccola parte già previsti, con una spesa significativa, che andrebbe ad aggiungersi a quella necessaria a potenziare i servizi per l’impiego e la formazione e le forme di tutela del reddito di tipo assicurativo e assistenziale previste dal Jobs Act, che potrebbero essere estese fino all’introduzione di un reddito di ultima istanza.

Una soluzione più radicale prevedrebbe l’introduzione di una pensione universalistica, non sottoposta alla prova dei mezzi, sostanzialmente un assegno sociale pagato a tutti gli anziani, a prescindere dall’aver o meno contribuito al sistema pensionistico. Su questa pensione si innesterebbe poi la pensione contributiva, il che permetterebbe anche di abbassare, a parità di prestazione erogata, le aliquote pensionistiche, dato che la pensione di base verrebbe finanziata attraverso la fiscalità generale.

In ambedue i casi salta il principio contributivo nella versione naive correntemente applicata in Italia, che verrebbe sostituito da versioni più evolute, nelle quali i contributi individuali vengono integrati da contributi figurativi (la prima ipotesi) oppure si aggiungono ad una prestazione pensionistica di base non contributiva (la seconda ipotesi). Non senza rischi politici, dato che il finanziamento con risorse pubbliche, e non con contributi pensionistici dei lavoratori, ha una diversa legittimità formale, dipendendo direttamente dalle (mutevoli) priorità di politica di bilancio. D’altra parte, non c’è nessun principio economico che richieda che le pensioni siano interamente finanziate con contributi sociali, piuttosto che attraverso la fiscalità generale.

Laddove l’Italia si è finora fatta campione di un siffatto principio, col risultato di imporre aliquote contributive particolarmente elevate, se la fiscalizzazione, almeno parziale, della spesa pensionistica incidesse su una base imponibile diversa dal lavoro (ad esempio rendite finanziarie o patrimonio), potrebbe contribuire ad aumentare effettivamente i salari e a ridurre il costo del lavoro, risultando più adeguata alle esigenze correnti delle nostre società.