Il rinvio dell’incontro tra azienda, governo e sindacati non ha sorpreso nessuno, né in Ilva né nelle aziende dell’indotto. Nonostante quello che traspare all’esterno, con le cifre enormi che si susseguono su tagli e licenziamenti, all’ombra dell’acciaieria gli operai sembrano già sapere che i giochi sono fatti, o che comunque nella maggior parte dei casi si assiste a una pantomima. Il punto è che il futuro sarà ben diverso tra chi lavora per l’acciaieria e chi per le aziende dell’indotto, che da sole raggruppano oltre 7.600 persone, numeri che nei conti ufficiali spesso mancano. Il livello di preoccupazione all’interno, riguardo al proprio futuro, è diverso tra chi è dentro e chi lavora per l’appalto. Chi è dentro sa che il governo non potrà mai accettare un numero così alto di esuberi, mentre chi lavora per le aziende esterne, per la stragrande maggioranza monocommittenti Ilva, è consapevole di essere appeso a un filo.

Michele lavora al reparto Pla 2, due forni a caldo, che prima sfornava quindici pezzi l’ora, ora solo sette. Michele è in cassa integrazione da agosto, e lo sciopero di lunedì (9 ottobre) non se l’è perso: “Bisogna dimostrare di essere compatti, perché quattromila esuberi sono troppi. Sappiamo che scenderanno, arriveranno massimo a mille. Sappiamo che dobbiamo fare dei sacrifici, perdere il premio di produzione, ma non accettiamo di essere licenziati e poi assunti con il Jobs Act e perdere l’anzianità”.

La pensa così anche Gregorio Gennarini, Rsu e Rls Filcams Cgil. Lavora nelle pulizie, per un’azienda dell’appalto, in Ilva da vent’anni. “Non è accettabile che perdiamo anche questo. Siamo professionalizzati e ci vogliono portare a zero. Il governo si dovrebbe impuntare, difendere i diritti acquisiti anche di noi operai e non solo dei parlamentari” dice. Tra interni e appalto, sono i secondi a temere di più: “L'indotto è quello che soffre di più, in tutti i sensi, anche in seguito alla cessione. C'è da fare per tutti però, perché se dobbiamo ambientalizzare, penso che gli operai serviranno. L’annuncio di Calenda un po’ mi ha dato speranza, ma in fondo non mi fido, perché sono certo che i giochi siano stati già fatti. La cosa che mi fa rabbia è che alla fine i conti li pagheranno gli operai, che perderanno i diritti acquisiti, in un territorio che sta già pagando tanto in termini di ambiente. Non si possono trattare gli operai in questa maniera”.

Ci sono aziende dell’indotto che contano centinaia di dipendenti. Come la Semat del gruppo Trombini, che a Taranto ha quasi 500 dipendenti e lavora solo per l’acciaieria. Si occupa degli edifici, delle costruzioni, di tutto quello che è cemento. Savino Capogrosso, Rsu Fillea Cgil, sa come andranno le cose: se gli operai sono gli ultimi, quelli dell’appalto sono gli ultimi degli ultimi: “All’appalto non si bada, tutti si concentrano sugli interni, ma noi siamo oltre duemilacinquecento”. E in cassa straordinaria, perché il lavoro è diminuito da quando è commissariata: “Da Milano non si prendono responsabilità ad autorizzare alcuni lavori di manutenzione e spesso stiamo fermi”. Questo ha implicazioni pure sulla sicurezza, anche perché “ci sono costruzioni che vanno manutenute costantemente”. La presenza dei politici ai cancelli, allo sciopero di lunedì (9 ottobre), non gli è piaciuta: “Siamo in queste condizioni proprio per colpa della politica e loro si presentano alle portinerie? Non l’accetto per niente”. Ai cancelli lunedì ha fatto una comparsata qualche sindaco, compreso quello di Taranto, e il rappresentante provinciale di Noi con Salvini, prontamente respinto al parcheggio dagli operai. “Ho sentito che il sindaco di Taranto vuole convocare un tavolo tra sindacati e azienda, coinvolgendo gli altri sindaci del territorio. Ma dove sono stati finora?”.

I dubbi sugli acquirenti sono concreti e penetrano fino all’ultimo operaio, fino al porto, al reparto spedizioni, dove qualcuno, che preferisce non essere nominato, ci racconta che si sa che Mittal vuole chiudere: “Lo sappiamo, ma che dobbiamo fare? Speriamo che il governo si metta una mano sulla coscienza. Non ci spieghiamo come faranno, comunque, a mantenere gli impegni presi per le bonifiche e contemporaneamente tenere in marcia la fabbrica: come se porti la macchina dal meccanico, ma vuoi continuare a usarla”. Quello che proprio non si accetta è la mancanza di rispetto nei confronti degli operai, dei compagni di lavoro, di quelli che hanno davvero mandato avanti l’acciaieria, oltre i decreti e i comunicati stampa: “Una settimana al mese non vado al lavoro, ma ci sono altri operai che da milletrecento euro ora ne prendono novecento. Non è giusto che tutto questo ricada su chi ha vent’anni di stabilimento alle spalle”.

Tra gli interni c’è qualche speranza in più rispetto ai colleghi dell’appalto: sanno di essere tanti, di essere troppi perché qualcuno faccia finta di nulla, come si è fatto nel resto d’Italia mentre altre fabbriche in altri settori chiudevano. “Quando tutto è iniziato, nel 2012, davvero non sapevo cosa sarebbe successo” conclude Michele: “Ma ora non la vedo proprio nera. Ci sarà da stringere i denti, ci sarà da perdere i premi di produzione, ma se l’Ilva chiude perde tutta l’Italia, la nostra fabbrica è di interesse nazionale”.