Titolo originale: Craxi

L’onda lunga. Non l’inondazione che sconvolge la spiaggia e ne disegna il profilo nuovo, ma il fiotto lento, continuo, intenso inesorabile dell’acqua marina che acquista vigore proprio nell’attimo in cui sembra affievolirsi e ripiegare, alimentata da una forza che trascina verso riva tutto ciò che il mare porta dentro il suo corpo, fino a coprire la terraferma: la conquista della terra da parte del mare, per gradi, riformista verrebbe da aggiungere.

Quello dell’onda lunga è stato l’unico contenuto vero della politica craxiana, socialista, dei cinque anni che vanno dal 1987 al 1992, il quinquennio dell’attesa, del lasso di tempo considerato politicamente necessario e sopportabile, tra la fine del primo governo (anche se in due fasi) guidato da Bettino Craxi e l’inizio del nuovo governo che sarebbe stato guidato da Bettino Craxi. I socialisti italiani di ogni ordine e condizione, di ogni città o paese della penisola hanno vissuto così, in questa sospensione, gli ultimi cinque anni della loro vita.

Il punto di partenza era un numero a due cifre e una manciata di decimali, il 14 punto 6 raggiunto nel 1987, lontano da quel mortificante 9 punto 6 che aveva suggellato l’età della sonnolenza (così nell’impietosa vulgata successiva) demartiniana, del partito dei nuovi e più avanzati equilibri, quello che gli elettori avevano ignorato aprendo la strada al ribaltone del Midas, l’hotel in cui i colonnelli quarantenni avevano incoronato il nuovo leader del più vecchio partito italiano nel luglio del 1976. Ma lontano pure dall’11 punto 4 incassato nel 1983, dopo un settennio di guerriglie, che aveva giustificato, nel gioco complicato delle legittimazioni dei governi di coalizione dentro un sistema ancora ossificato dal fattore k, la presidenza del Consiglio al capo di un partito capace di raccogliere il consenso di poco più di un decimo dell’elettorato. Le tappe che avrebbero scandito il montare dell’onda lunga erano segnate e venivano ripetute in ogni comizio di borgata, comparsata televisiva, assemblea congressuale, a confutazione degli increduli e ad ammonimento dei nemici: primo passo primavera 1989, elezioni europee, il terreno più favorevole per un partito che poteva vantare una collocazione di rilievo e di antica data nel contenitore politico più prestigioso e importante del continente, l’Internazionale socialista. Gli elettori - per conseguenza - non avrebbero potuto sottrarsi all’occasione storica di adeguare il loro paese a quelli più avanzati della loro stessa parte del mondo, votando copiosamente per i socialisti italiani. Poi sarebbero arrivate le amministrative del 1990, le elezioni più adatte a esaltare un partito fortemente radicato nei consigli e nelle giunte comunali e quindi in grado di legare a sé interessi locali portatori di clientele e voti. A conclusione del ciclo si sarebbe, infine, celebrata l’agognata consultazione nazionale, il grande giudizio che una fatalità favorevole, un po’ aiutata da un’insolita moderazione nei rapporti con gli alleati di governo, aveva voluto cadesse nel 1992, proprio nell’anno centenario del partito che, perciò, dal voto si attendeva, o pretendeva, un trionfalistico esame di tutta la sua storia passata, di tutte le sue giuste ragioni, di tutte le intuizioni generose e quasi mai debitamente riconosciute di generazioni e generazioni di militanti lun-gimiranti e onesti. Sconfitti quasi sempre ieri, ma oggi restituiti all’onore della vittoria postuma dal vendicatore nato dal seno stesso della medesima dileggiata famiglia.

Davanti a un calendario così pressante e a una congiuntura positiva altrettanto indiscutibile, gli accidenti della politica - era la convinzione unanime - nulla avrebbero potuto. Nemmeno la storia, nemmeno la caduta del muro di Berlino. Si trattava tutt’al più di insidie moleste, bastava non vederle o tenerle per quel che tornava utile fossero: elementi a conferma del quadro prospettato, certo non tali da cambiarlo e meno che mai da indurre a un conseguente cambiamento della direzione di marcia.

La strada maestra, espressione con cui Craxi indicava, spesso con semplificazioni felici che incenerivano i bizantinismi dei discorsi della politica politicante, la via più diretta per arrivare al punto, alla decisione, era quella dei successi elettorali: il va e vieni dell’onda lunga che avrebbe risospinto tra le sue spume il leader, e tutti i socialisti, alla presidenza del Consiglio. I risultati elettorali ad ogni scadenza emettevano altri verdetti, sembravano figliati da altre preoccupazioni e da altre priorità. Incrementi modesti, sussulti appena nel sismografo dei comportamenti elettorali degli italiani, percentuali assai al di sotto delle aspettative e delle ambizioni. Eppure queste prove, le dure repliche del voto (parenti più umili di quelle della storia, che però, come abbiamo detto, parevano passate in secondo ordine per non essere costretti a constatare i cambiamenti compiuti dagli altri, quand’anche in modo spesso troppo disinvolto), non erano sufficienti a spegnere, e nemmeno ad attenuare, l’illusione elettorale dei socialisti.

La scappatoia era quella di pesare i voti e non contarli: di andarne ad accertare la qualità non potendone esibire la quantità. Era cosi che si rinvigoriva la retorica dei ceti emergenti come nuova base sociale del partito socialista e fonte autorevole del mandato richiesto dal suo capo di governare l’Italia. Era la materializzazione, nell’attimo giusto, degli italiani meritevoli e bisognosi di cui aveva caldamente parlato Claudio Martelli a Rimini nei primi anni della "lunga marcia". Ma fino a quel momento si era trattato di un’ipotesi di lavoro, o poco più: la definizione da parte di una forza politica in cerca di una sua identità di “referenti” nuovi, dopo aver prima perso per la ferrea consequenzialità della storia del mondo spaccato in due e poi, in tempi meno duri, abbandonato per scelta politica i vecchi soggetti sociali di riferimento: quella classe operaia mai conquistata del tutto alla strategia riformista, sul piano delle idee almeno, perché quanto ad azioni altra scelta non era stata mai davvero praticata a sinistra del partito socialista. Adesso quella enunciazione ipotetica stava diventando una necessità, la giustificazione di un protagonismo politico che in nome del nuovo poteva permettersi di prescindere dai rapporti di forza, senza che alcuno ne contestasse la radice fragile, tutta immersa nel terreno arido di un sistema politico ormai solamente autoreferenziale.

Eppure, in quello stesso torno di tempo, era l’ufficio di analisi elettorali del partito, diretto da Gianni Statera, il sociologo che anni prima, parlando a un convegno di Mondoperaio, aveva proposto wildianamente di battezzare Ernesto l’area socialista smarrita in cerca di un nuovo principe, a dire le cose come stavano e a dimostrare che i voti, quando c’erano, arrivavano dalle regioni e dai gruppi sociali meno toccati dalla modernità. Voti dunque sempre più marginali, richiamati con maggior probabilità dall’esercizio della funzione di tutela cara ai poteri logori della società piuttosto che ai nuovi. L’illusoria prospettiva portava a confondere il rampantismo con l’innovazione, l’animus con la forma, ma l’equivoco dava modo a un ceto politico, come lo si sarebbe rinominato più tardi, composto da folte schiere di epigoni periferici di autogiustificare il ruolo ricoperto e la propria promozione sociale. L’illusione elettorale era però indispensabile soprattutto per far trascorrere il tempo della separazione tra il primo e il secondo avvento della presiden-za del Consiglio socialista, senza che se ne mettesse in dubbio l’ineluttabilità.

Nell’attesa, assorbita nella mistica dell’onda lunga, le battaglie politiche, necessarie a popolare di azioni un tempo pensato immobile, erano episodi di guerriglia, meglio ancora scaramucce prive di profondità politica, non prive qualche volta di fascino ma strutturalmente compatibili, non deflagranti, con il sistema di coalizione imperante. Delle trovate in sostanza assai simili a quelle già raccontate, per uno scenario assai più drammatico, nella stagione delle grande bonaccia, quando gli eserciti a forza di mimare la contrapposizione finivano col dimenticarne il motivo. Ora si replicava allo stesso modo, con l'aggravante che forse motivo vero di contrapposizione non c’era mai stato.

La più nobile, ma anche la più distante dalla cultura e dal sentimento socialista, di tali battaglie veniva a essere quella, condotta vigorosamente, per una legislazione proibizionista sulla droga: era un tuffo nella società, sia pure lambendo il suo versante più impaurito, che risaltava a contrasto del sempre uguale gesticolare della politica quotidiana, lontano dalle passioni e dalle preoccupazioni delle persone. Quella meno entusiasmante rivolta tutta a promettere ripicche e vendette agli intimiditi partner di coalizione riguardava riforme elettorali appena accennate, cavilli dietro ai quali si scorgevano con scandalo complicati disegni ostili, intorno ai quali senza imbarazzo si sprecavano pagine e pagine di relazioni congressuali, un tempo modello di sobrietà e chiarezza. Erano i conflitti mai completamente veri e mai completamente finti di un tempo che doveva concludersi così come era cominciato, quasi che la vicenda politica italiana, avendo per un attimo toccato la sua compiutezza, da allora in poi altro non avesse agognato se non di ritrovare quell’attimo smarrito.

Un quinquennio di attesa, dunque, l’ultimo vissuto dai socialisti. Ma l’attesa non era solo di questi anni estremi. In essa in realtà si sarebbe potuta riassumere la cifra interpretativa di tutto il sedicennio craxiano. Craxi stesso, secondo il narratore più lucido e indulgente della grande slavina che successivamente avrebbe travolto i socialisti, Luciano Cafagna, era stato un’attesa insoddisfatta, dal punto di vista dei suoi sodali di partito ma anche visto dalla parte degli elettori che non avevano mai cessato di diffidarne e tuttavia, nel contempo, non avevano smesso di osservarlo, come se i segnali che dalla sua azione politica emanavano non fossero mai del tutto inequivoci e altri se ne attendessero prima di entrarci in sintonia e rispondere.

Che l’attesa dovesse diventare un programma, del resto, era stato lo stesso leader a dichiararlo, all’alba della sua lunga segreteria: “primum vivere”, aveva dichiarato enunciando la sua priorità. Prima vivere, poi il resto. Prima riequilibrare il rapporto di forze nella sinistra, poi l’alternativa socialista. Prima costringere i comunisti ad abiurare il loro passato, poi farseli alleati per il presente. Prima ridimensionare la Democrazia Cristiana, poi costringerla all’opposizione. Prima riformare le istituzioni, poi attuare l’alternativa democratica. Prima cambiare il sistema dei partiti, poi “passare la ramazza” (così in un’intervista a un giornale nemico) nel proprio. Prima diventare presidente del Consiglio, poi tutto il resto.

In questo sapiente ondeggiamento tra modesto presente e luminoso avvenire si era andata consumando un’esperienza politica che, all’esordio, eccezion fatta per l’intrigo originale, aveva lasciato sperare ben altro da sé. Ma era stata anche nella virtù di questo ondeggiamento la ragione della tenace fedeltà dei militanti al leader, qualsiasi politica proponesse (ed erano gli stessi militanti, o della medesima pasta degli stessi, che non si erano lasciati conquistare da capi del calibro di Pietro Nenni, il solo che con lui avesse condiviso trent’anni prima, secondo Cafagna, la tentazione di un’accorciatoia plebiscitaria come risposta al maggior radicamento sociale e alla maggiore tutela, in ogni senso, internazionale degli altri partiti). Ciò che contava era che quella politica potesse essere giocata nello schieramento che ciascuno preferiva. Pesava la paura di interrompere un percorso, l’unico possibile e l’unico che sembrava potesse aprire alla sinistra una prospettiva nuova. Sarebbe parso più tardi un paradosso: ma Craxi che avrebbe dato vigore politico all’aggettivo decisionista, come un attributo da imporre a una prassi politica timida, incerta delle sue stesse ragioni, trovava la strada di affermarsi solo perché alla fine non decideva nulla, sceglieva il profilo incerto e così riusciva a tenere fermi in attesa del seguito i socialisti che, stremati dalle lunghe stagioni della divisione riscoprivano nell’indeterminazione della meta finale della loro politica un modo per rimanere uniti.

Eppure Craxi era nato da un pronunciamento dei piani bassi di palazzo. Con il viatico, forzato ma alla fine benevolo di Riccardo Lombardi che per convincersi era stato costretto a convenire che un cattivo cardinale (e Craxi evidentemente a suo giudizio lo era stato) poteva essere nondimeno un buon papa. La “base” lo ricordava appena per qualche apparizione televisiva nelle tribune elettorali minori (quelle di dieci minuti, con testa a testa tra personaggi secondari o non ancora preminenti: tra di esse una memorabile l’aveva visto contrapposto a un mite liberale scatenato, ancora a quindici anni di distanza, per la vergogna del muro di Berlino, al quale egli aveva replicato infastidito, dimostrando così di non ammettere confusioni sulla memoria storica, che non era stato certo lui a innalzarlo quel muro), o per gli impacciati interventi ai congressi dominati dalle temerarie, loiche, profezie di Riccardo Lombardi, il socialista che rassicurava i socialisti sul fatto che le loro politiche se potevano essere sbagliate, mai sarebbero state però infamanti.

La lunga fedeltà dei socialisti del partito a Craxi non era cominciata quindi da subito. Il punto di svolta c’era stato nel giro di un anno, a cavallo tra il 1977 e il 1978. Al popolo dei militanti, intramati in una cultura che la lunga pratica riformista in governi i cui programmi, o almeno le pagine più convincenti di essi, erano state scritte dagli intellettuali politici socialisti, non aveva sostanzialmente reso diversa e più autonoma rispetto a quella che veniva attribuita a una sinistra allora non ancora plurale, che il tempo fosse mutato e che il tempo della politica non dovesse necessariamente coincidere con quello degli onesti stupori e delle rabbiose (a volte tanto più violente quanto più ipocrite) indignazioni popolari, era parso evidente in occasione di un episodio, oggi quasi del tutto dimenticato.

All’indomani di un voto dei commissari socialisti che, insieme con i colleghi dei partiti allora di governo, avevano assolto ministri ed ex ministri dall’accusa di aver lucrato tangenti dall’acquisto di una partita di aerei americani, una folla di militanti aveva occupato la direzione del partito. Materialmente, non simbolicamente. Centinaia di compagni e compagne provenienti da tutte le parti d’Italia, ma soprattutto dalle sezioni romane e della vicina provincia ciociara, avevano per alcune settimane invaso gli angusti scaloni del “palazzo” di via del Corso, gli uffici allineati uno dopo l’altro lungo corridoi orientali secondo una logica topografica che portava davanti a ciascuna porta sempre per la via più lunga, le sale d’attesa d’ogni piano a un angolo delle quali, come nelle prefetture, una grande scrivania di noce bruna faceva da postazione all’usciere compagno preposto alle informazioni.

In casi del genere, e nel vecchio partito socialista, la base avrebbe vinto. Il partito avrebbe sconfessato il suo voto parlamentare o anche, senza ricorrere a decisioni nette e clamorose, avrebbe riconosciuto ragione ai dimostranti, insinuandosi nel labirinto dei distinguo e delle perifrasi attenuanti. Craxi, invece, aveva preso di petto il problema e aveva replicato chiaro e tondo che il voto infamato non era affatto infame e, anzi, era stato quello giusto secondo ragione e coscienza. E aveva aggiunto, una volta sbaraccati i bivacchi, che finché lui fosse rimasto segretario cose del genere non si sarebbero più ripetute. Non si sarebbe cioè ripetuto che dei compagni dileggiassero i loro dirigenti per spirito di confusione e demagogia. Era stato in quel momento preciso, e non in altri, che i militanti socialisti avevano sentito di avere un capo e di poter affrontare, da allora in avanti, le procellose vicissitudini di quegli anni senza affanni: senza dover elaborare in ogni decisione politica il senso di lutto (e di colpa) dell’ormai non più recente rottura a sinistra avviata con la politica del centrosinistra. Un anno più tardi, la vicenda più tragica dell’Italia repubblicana aveva confermalo ai socialisti che il loro segretario era capace di mosse impreviste, di decisioni impopolari ma anche di leggere la realtà politica, di sentire la profondità storica, di usare una tavola di declinazione delle responsabilità diversa dalla norma e dalla retorica repubblicana, col cemento delle quali si era consolidato il sistema politico italiano: quello almeno dell’allora nominato arco costituzionale.

Dopo alcune settimane dal rapimento di Aldo Moro e dopo un’alluvione di dichiarazioni contro la trattativa per la sua liberazio-ne, prima ancora che qualsiasi richiesta venisse avanzata, tanto da suggerire in alcuni casi l’impressione che il diniego annunciato dovesse servire solo a riconfermare la saldezza dei propri princìpi, il fronte del No era stato frantumato dall’iniziativa umanitaria che Craxi aveva imposto ai socialisti (“Non voglio partecipare a un altro funerale”, aveva dichiarato, “Non voglio partecipare al funerale della Repubblica”, aveva replicato Sandro Pertini, e nelle due affermazioni c’era tutto il nuovo e tutto il vecchio dei socialisti italiani). Si era trattato di una mossa del cavallo (che non a caso aveva entusiasmato a sinistra tutti gli adepti del suggestivo partito del pensiero laterale, anche in politica) che aveva centrato in una volta sola più obiettivi: la differenziazione rispetto al coro unanime dello schieramento che si era autonominato della fermezza, con un colpo violento, quindi, ai sostenitori dell’unità nazionale (l’unità ha bisogno dell’emergenza e il caso Moro sembrava capitato a proposito per rianimarla nel momento in cui, giunta a pienezza, si indeboliva). Un messaggio lanciato al vasto mondo cattolico per il quale, tra diritto dello Stato e diritti della persona, la scelta non poteva che essere a vantaggio di questi ultimi (“Non l’uomo per il sabato ma il sabato per l'uomo”, aveva scritto in una fervida lettera a l’Avanti! Gianni Baget Bozzo, il prete che da quel momento diventerà ispirato corifeo del craxismo trascendente e trascendentale). Un ponte rivolto, per quanto allora potesse suonare strano, sia al mondo extraparlamentare che si illudeva, trattando per Moro e su Moro, di destrutturare lo stato in maniera pacifica (ottenendo cioè un risultato che all’apparenza coincideva con quello proclamato dalle Brigate Rosse), sia alla destra democristiana che voleva liberarsi dall’abbraccio del compromesso storico.

Un ragionamento politico, commentavano alcuni, nel quale la vita dell’onorevole Moro era un elemento del tutto marginale; e che dunque seguiva l’intento di proiettare i socialisti e il loro leader al centro del gioco politico che ormai si stava rinnovando e cercava nuovi protagonisti. Non c’era ovviamente particolare motivo di scandalo se un leader politico si riprometteva, sia pure su una vicenda tanto tragica, di conseguire un beneficio politico per sé e la sua parte. Ciò, comunque, non diminuiva le consi-stenti ragioni della battaglia, la legittimità di una visione diver-sa, minoritaria nel mondo politico ma forse non nella società, dello Stato, l’alto livello evocativo di un richiamo a una “risposta di vita” e non di morte. E tuttavia, nella selva degli interessi e delle passioni della politica non sembrava stonato, anzi indicava un sentimento delle cose e del tempo autentici, quel fondo, anonimo ma facilmente attribuibile, del quotidiano socialista che, chiudendo i conti del caso Moro quando il dado era stato già tratto, spiegava in uno stile che Craxi raggiungerà poche altre volte nel corso della sua carriera politica, e tutte le volte però che la situazione ne avrebbe avuto bisogno, che quanto ai socialisti una mano era stata protesa verso di loro e loro avevano sentito il dovere umano di stringerla, per non lasciarla senza appiglio.

Non si trattava solo di tattica o di spirito umanitario. Nelle scelte del caso Moro cominciava a emergere un’ispirazione più complessa che si proponeva il compito di liberare la sinistra italiana dall’ipoteca catastrofista su cui aveva “giustificato” la sua politica, e infine se stessa, da sempre. Ciò a cui Craxi alludeva era una sorta di grande riconciliazione tra ottimismo e politica, il superamento della politica come risposta alle catastrofi della storia o della natura. Anche questo punto di vista riportava, tutto sommato, all’antica querelle col mondo comunista, non a caso cresciuto su liturgie scaramantiche contro l’incontrollabilità della vita, la cui tremenda forza pure, agli esordi nei Soviet, aveva colpito un osservatore come Piero Gobetti. E riportava anche alla mai accettata superiorità, nella sinistra italiana, del modello riformista, dotato di un’anima, di “compassion” (avrebbe detto più tardi Tony Blair), di cordialità verso gli ultimi, mai considerati tali una volta per sempre, ma ogni volta invece pretesi a protagonisti di una lenta costruzione ottimisticamente protesa passo dopo passo a edificare, più che nuovi mondi, le nuove frontiere del mondo.

Di tutto questo i militanti socialisti avevano visto sostanziarsi la nascente leadership sul chiudersi degli anni settanta. E su di essa avevano deciso allora di investire senza ritorno. L’onda lunga, come argomento politico e figura dell’attesa, era arrivata dopo. A sostituire dibattiti, a nascondere divisioni, a evitare ripensamenti. Nel 1992 i voti raccolti dal partito socialista segnavano un lieve arretramento, per meglio dire accennavano al principio di un riflusso. Da lì a poco questo e altri fatti avrebbero perso ogni significato. Unica a significare sarebbe rimasta la ragnatela mortifera intessuta per piegare con il denaro la politica: vischioso lascito, spiegherà più tardi Cafagna, della lontana ossessione che ogni autonomia potesse essere strozzata per via finanziaria. In quel momento i più fidenti avrebbero capito che tutto era già stato e che la parabola del capo era segnata e conclusa in tutti i suoi prima. Quelli, i soli, per i quali alla fine sarebbe stato misurato. I socialisti si sarebbero ritrovati d’un tratto senza capo. Senza Craxi. Il loro e il suo destino si separavano. Ma di quella separazione, senza più attesa, avrebbero sentito ancora per molto l’acerba ferita.

Sullo stesso tema:

» Craxi preso sul serio