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Arsal (Libano) – Spingono avanti i bambini e fanno segno di fotografarli e di riprenderli, soltanto loro però. Gli adulti parlano della fuga dalla Siria, dieci chilometri a est, dei bombardamenti del governo di Damasco che hanno ridotto in macerie le loro case e di come vivono nella piccola scuola in disuso di Dar Zaki, nella città libanese di Arsal, enclave sunnita di 35.000 abitanti che ospita circa 5000 siriani, ma non ne vogliono sapere di prestare il loro volto alle telecamere che di tanto in tanto si affacciano in questo “campo” in cui vivono da mesi. Dall’altra parte del confine nordorientale, oltre la catena montuosa dell’Antilibano, ci sono i parenti e gli amici, alcuni si sono uniti ai ribelli, anche se nessuno lo dice, e chi ha trovato rifugio in Libano teme ritorsioni. Il destino di Bashar al Assad non è ancora segnato e dalla Siria arrivano notizie di torture e omicidi, confermate da Lakhdar Brahimi, inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la crisi siriana.
Nella ex scuola di Dar Zaki, di proprietà di un privato, ci sono 120 siriani arrivati soprattutto da Hama e da Homs. In maggioranza sono donne e tanti bambini (in città ci sono circa 1200 minorenni siriani) che scorrazzano scalzi sul ballatoio su cui si affacciano le aule diventate la loro casa: i materassi accatastati in un angolo, un fornello, taniche di plastica per l’acqua, qualche sacchetto di patate. Nel cortile un lavatoio comune e sette bagni alla turca, alcuni fuori uso. Questi rifugi di pochi metri quadrati costano cento dollari al mese, l’acqua dieci dollari per 500 litri. Ma c’è chi ha affittato una casa in città anche per 350 dollari al mese, la media è 200.
Zaina, 19 anni, tiene in braccio uno dei suoi tre figli mentre racconta di come è arrivata ad Arsal percorrendo circa 15 chilometri a piedi tra le postazioni dell’Esercito siriano libero (Fsa). Adesso ha bisogno di medicine per i bambini, ma in città le hanno chiesto 50 dollari che lei non ha. Per alcuni i profughi sono un business, ma ad Arsal ci sono anche libanesi che ospitano siriani senza chiedere nulla e in 16 moschee in disuso risistemate dalla ong Norwegian Refugee Council (Nrc) vivono altre persone.
La famiglia di Mohammed Sharif Adderi, un uomo gentile sulla cinquantina con gli occhi di un azzurro cristallino, vive in due stanze ricavate in una ex moschea. Sono in 16 e vengono da un sobborgo di Homs. Mohammed non sa se la sua casa sia ancora in piedi, né ha notizie di amici e parenti rimasti nella città che lui ha lasciato lo scorso marzo. Homs è uno dei più sanguinosi campi di battaglia tra i ribelli dell’Fsa e le Forze armate fedeli ad Assad e, hanno detto alcuni profughi della scuola di Dar Zaki, in città ci sarebbe un migliaio di miliziani di Hezbollah.
Le voci sulla presenza in Siria di uomini del Partito di Dio libanese, di salafiti, di membri delle Guardie della Rivoluzione iraniana, di gruppi islamisti e di combattenti che parteggiano per l’una o l’altra parte girano da tempo. La crisi siriana, iniziata 18 mesi fa come rivolta di popolo contro un regime che di padre in figlio governa il paese da quaranta anni, è sfociata in una guerra civile che ha fatto 1,5 milioni di profughi, di cui quasi 75mila in Libano, e migliaia di morti. La presenza sul territorio siriano di “terroristi” stranieri serve ad Assad per giustificare la repressione del suo popolo perpetrata anche da mercenari del regime, mentre la Siria è diventata il terreno di scontro di interessi internazionali che potrebbero far precipitare tutta la regione nel caos. Una Bosnia mediorientale, dicono alcuni analisti, e il Libano con il suo melting pot etnico-religioso e alle prese con una costante instabilità politica potrebbe esserne la prima vittima. I siriani fuggiti ad Arsal non riescono a vedere la fine delle violenze, il ritorno a casa è lontano, dice con tono pacato il signor Adderi: “Tanti paesi sono intervenuti nel conflitto, a favore o contro Assad. Ma i ribelli diventano ogni giorno più forti”.
In questa città che si affaccia sulla Valle della Bekaa, zona di traffico di droga, di armi e di rapimenti, l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) manca da due mesi e mezzo, dicono i profughi. “Contattiamo via sms le persone che si sono già registrate per capire di cosa hanno bisogno e siamo presenti con team mobili che si spostano da un villaggio all’altro per individuare gli ultimi arrivati”, spiega Dana Sleiman, portavoce dell’Unhcr in Libano, “la situazione è difficile perché molti non hanno documenti. Adesso abbiamo una postazione stabile a Baalbek e ne stiamo organizzando un’altra nella zona”. Il Libano, dal 1948 alle prese con la diaspora palestinese, non ha sottoscritto la Convenzione sui Rifugiati del 1951 nè il Protocollo sui Rifugiati del 1967 e non ha consentito l’allestimento di campi di accoglienza. I siriani che alla spicciolata attraversano il confine a piedi, pagando un passaggio o, come accade ad Arsal, con le macchine che il municipio manda al confine, sono considerati ospiti temporanei, sfollati che non godono dello status di rifugiati.