Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.1 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica su Rassegna dedicata alla stessa Rivista

Periferia è divenuto un termine squalificante, una sorta di specchio in cui si riflettono le contraddizioni del modello neoliberista le quali si inscrivono, e si rendono oltremodo visibili, territorialmente. Le dinamiche di espulsione dal processo produttivo, la precarizzazione lavorativa, la riduzione delle risorse di welfare state, l’erosione dei diritti di cittadinanza, sono i caratteri preminenti ampiamente analizzati che incidono sulle traiettorie di vita degli abitanti delle zone periferiche. In tal senso, l’esclusione tende sempre più a manifestarsi in rapporto allo spazio e alla concentrazione delle nuove “classi pericolose” quale surplus di umanità difficilmente integrabile alle necessità del nuovo assetto socio-economico.

L’interazione tra processi di esclusione e segregazione spaziale alimenta un circolo vizioso che enfatizza una logica d’emergenza. In tali contesti la presenza di nuclei immigrati rappresenta un ulteriore fattore critico che rafforza l’idea stigmatizzante di uno “spazio altro”. Il segno tangibile di questa stigmatizzazione territoriale è rinvenibile nella varietà dei toponimi utilizzati nella letteratura sociologica per identificare questi badlands: quartieri sensibili, quartier d’exil, quartieri difficili, quartieri sfavoriti, ghetti. Lo stesso vocabolario amministrativo si modifica enfatizzando la coincidenza tra spazio segregato e problemi sociali, come nell’esempio francese delle “zone urbane prioritarie”, che consolida l’immaginario di uno spazio definito esclusivamente dalle sue mancanze.

Su questo orizzonte di crisi si è compiuta la metamorfosi della questione sociale in questione urbana. Le politiche pubbliche a partire dagli anni ottanta si spostano progressivamente dalle “persone verso i luoghi”, enfatizzando l’indirizzo verso la ricomposizione del legame e la coesione sociale. Si presuppone che in questi territori vi sia una socialità patologica colpevole di creare essa stessa le condizioni di marginalità e di conflitto. Conseguentemente, l’intervento prefigura un’azione diretta alla mescolanza sociale tra differenti gruppi e categorie sociali. Gli obiettivi inclusivi di questa ingegneria sociale si incentrano sulle supposte virtù taumaturgiche del social mix che garantirebbero ai soggetti problematici di apprendere stili di vita, comportamenti e valori delle famiglie dotate di maggiori strumenti culturali, sociali ed economici.

L’imponente sforzo messo in campo da questo orientamento “iperlocalistico” per riqualificare socialmente le periferie, nella maggioranza dei casi, sembra non aver inciso in modo significativo sulla riproduzione dei meccanismi di esclusione. Gli scarsi risultati ottenuti, infatti, mostrano chiaramente i limiti di una razionalità amministrativa che, da un lato, rinvia il trattamento delle disuguaglianze intervenendo sullo spazio e mettendo in secondo piano le politiche macroeconomiche che hanno favorito il loro aggravamento; dall’altro, si ritiene legittimo imporre amministrativamente un modello relazionale alternativo che sostituisca il preesistente ritenuto disfunzionale, il quale, a volte, viceversa sopperisce al deficit di risorse e di aiuto.

A fronte di tale situazione, le differenti periferie delle principali aree metropolitane, non sono sempre marcate esclusivamente dalla passività e dal risentimento. Questa rappresentazione suona stonata, non corrispondente del tutto alla pluralità dei vissuti che si sperimentano quotidianamente. Tale sguardo è l’esito, in parte, di analisi affrettate, le quali inconsapevolmente rafforzano il paradigma dell’emergenza e perseguono nella logica della stigmatizzazione di quei luoghi. Ciò non significa banalizzare, o peggio occultare, le tangibili problematiche di illegalità, abusi e degrado che si sono concentrate nell’indifferenza generale dentro le periferie. La periferia non è solo e soltanto una terra di nessuno, una sorta di “eccezione” di cui ci si occupa soltanto quando questa diventa cronaca e su cui si deve intervenire con strumenti “eccezionali”.

In quegli spazi periferici si palesa, il più delle volte inascoltata, una ricchezza di progettualità, di associazioni, di comitati di quartiere, che concorrono a contrastare, nei limiti possibili, l’abbandono delle istituzioni pubbliche e i processi di esclusione. Si potrebbe affermare la necessità di una visione eccentrica, nel suo significato etimologico di spostare lo sguardo fuori dal centro. Una eccentricità sia socio-spaziale, le periferie come territori privilegiati d’intervento culturale e politico, sia di azione pubblica, nei termini di creare, sostenere, favorire una pluralità di centri con le proprie autonomie e connessi tra loro attraverso l’effettivo coinvolgimento del citato associazionismo locale.

L’ipotesi su cui ragionare è di attuare, quindi, una revisione del governo territoriale verso l’assunzione responsabile del ruolo di regia, coordinamento e ascolto delle distinte socialità e dei distinti attori con il loro portato ambivalente di conflitto e di dialogo. Non si tratta di delineare un modello valido per tutti i casi che sociologicamente trattiamo come periferia. Le specificità contestuali determinano l’ampiezza e la qualità necessarie al processo di cambiamento e alle inedite relazioni tra il “centro e la periferia” che possono determinarsi. Pur nel riconoscimento di questa differenza, rimane decisivo per riaffermare i diritti di cittadinanza contrastare gli effetti persistenti dell’emarginazione e creare arene deliberative in grado di attivare e di sostenere il metabolismo civico ancora presente nelle periferie. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche.

Tale innovazione, tuttavia, appare ancorarsi alle peculiarità e alle scelte del centro. Conseguentemente, si può innescare un’ulteriore separazione nelle città, non soltanto tra le periferie e il centro, ma anche tra le stesse periferie, quelle “buone” e quelle “cattive”, con esiti alquanto discutibili sul piano della cittadinanza. Infatti, si può immaginare che le fratture dentro la città si allarghino, ostacolando la pluralità dei centri in periferia e il rafforzamento delle capacità dell’attivismo e della socialità diffusa a livello locale per fronteggiare la multidimensionalità del degrado.

DAL NUMERO 1/2016 DI RPS:
Le aree militari nelle città italiane: patrimonio pubblico e rendita urbana nell’era dell’austerity e della crisi
Francesca Artioli